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Rivista Antonianum
Informazione sulla pubblicazione

 
 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: William McKane, A Criticai and Exegetical Commentary on Jeremiah, vol. I , in Antonianum, 64/2-3 (1989) p. 470-473 .

E' dal 1951 che il prestigioso ICC non pubblicava più un commenta­rio biblico. Con il volume che presentiamo, la T & T Clark ha ripreso la pubblicazione della collana. Se ne sentiva il bisogno, come dimostra il commentario in questione.

Esso è nato in un anno fortunato per gli studi su Geremia: nel 1986 sono usciti ben tre commentari; oltre quello del M., anche quelli di W. Holladay e di R.P. Carroll.

Il presente commentario, di cui si recensisce il primo volume, com­prendente i ce. 1-25, ha una fisionomia originale che risalta immedia­tamente nella interessante e stimolante introduzione (una vera e pro­pria monografia, tutta da gustare).

L'introduzione consta di otto parti. Nella prima parte, il M. affronta l'importante argomento delle antiche versioni di Geremia, soprattutto quella greca dei LXX. Il raffronto e lo studio di esse con il testo maso-retico (TM) si rivela necessario, data la origine tardiva del TM; mentre la versione dei LXX suppone una « Vorlage » ebraica di gran lunga più antica. I problemi non nascono semplicemente da una questione di prio­rità, bensì dalle rilevanti differenze intratestuali (linguistiche e semanti­che) e strutturali (il testo greco è più breve e presenta una disposi­zione diversa dei capitoli, rispetto al TM, con il quale sono, perlopiù, d'accordo anche la Volgata, la siriaca Peshitta e il Targum). Il M., con una precisa e puntuale scelta di esempi, mostra i risultati ai quali giunge e che guideranno il prosieguo della presentazione della sua posizione. Spesso il TM rivela delle espansioni dei corrispettivi testi greci, mo­strando così la sua seriorità. La Peshitta, che in genere si rifa al TM, talvolta si discosta da questo per seguire la LXX; la spiegazione è che il traduttore siriaco, quando, non capiva probabilmente il testo ebraico, si affidava alla versione greca, che doveva essergli disponibile. Sia la Peshitta che il Targum si caratterizzano per un appiattimento dell'imma­ginario geremiano, per renderlo più didatticamente accessibile. La Vol­gata, pur rifacendosi al TM, mostra un intelligente procedere critico che a volte è una vera esegesi. Ma un'attività esegetica è presente anche nelle altre versioni (oltre che nello stesso TM, come denota il suo stile « espan­sivo »).

Su tutto questo, il M. si muove con acribia e discrezione metodologica, sempre pronta a non assolutizzare i risultati, ma anzi offrendo possibili interpretazioni alternative. E' il criterio che egli conserva nel resto dell'introduzione.

Nella seconda parte, l'autore si confronta con due studi significativi, uno di W. Thiel e uno di H. Weippert, entrambi del 1973, aventi come tema i testi in prosa di Geremia. Entrambi gli autori delle suddette opere adoperano argomentazioni linguistiche, per giungere a risultati di­versi. Mentre il Thiel tende a dimostrare quali testi e perché sono di origine deuteronomistica, la Weippert, invece, è preoccupata di dimo­strare l'autenticità geremiana degli stessi testi. Entrambi, per il M., par­tono da criteri pregiudiziali discutibili. Mentre il primo cortocircuita troppo presto la sua analisi con il suo pregiudiziale deuteronomismo dei testi prosastici di Geremia, la seconda, invece, troppo facilmente vuole far passare per geremiani testi che presentano espressioni lingui­stiche similari, mentre potrebbero essere benissimo delle imitazioni ad arte deuteronomistiche del dire geremiano. Come si può vedere, il M. è un filologo rigoroso che non si accontenta di affermazioni esegetiche con­clusive e globalizzati: la sua arma pregiudiziale è il sospetto (un'arma che, però, può essere a doppio taglio, come si dirà più avanti).

Nella terza parte, continuando a discutere la posizione del Thiel, il cui deuteronomismo appare all'a. onnicomprensivo, viene preparata la posizione vera e propria del M. nei riguardi del testo geremiano. Difatti, nella quarta parte egli espone la sua teoria attorno al libro di Geremia, che egli denomina un rolling corpus, cioè una valanga, che, scorrendo lungo il corridoio del tempo, aggrega attorno a sé l'operazione esegetica ed editoriale di più mani. Ora, tale aggregazione si opera attorno a sin­goli versetti isolati, mai a grandi unità e, tanto meno, all'intero libro. La sua teoria suona così: « The kind of impetus which produce growth and enlarge a pre-existing nucleus of Jeremianic material are not necessar-ily related to a grand, theological scheme and perhaps do not extend beyond narrow contextual limits. The « trigger » may consist of no more than a single verse or a few verses; the expansion may have no more than a narrow, localized exegetical intention. It may be entirely innocent of the comprehensive, systematic theological objectives which it is cu-stomary to seek in the prose of 1-25 » (p. L). Per il M. è fondamentale fare ricerche sulla storia genetica del testo a partire dal nucleo gere­miano, senza intendere con ciò le ipsìssìma verba del profeta. Anzi, date le condizioni nelle quali ci si trova a lavorare, cioè solo la dispo­nibilità di un testo greco, più antico per la sua Vorlage ebraica, e del TM, che risulta essere un'espansione del primo, l'applicazione della teoria del M. così si può descrivere: « If the assumption is made that the shorter text of Sept. gives us access to Hebrew text shorter than MT, the most stringent demonstration of the roUing corpus idea is the examination of the history of the Hebrew text in the area between the Hebrew Vor-lage on which Sept. rests and the extant Massoretic text» (p. LXXXI).

Per applicare la sua teoria all'analisi, l'a. parte da tre criteri lette­rari: a) la poesia genera la prosa; b) la poesia genera la poesia; e) la prosa genera la prosa. Con questi presupposti, egli spiega come si venga generando l'aggregazione linguistico-esegetica attorno a piccolissime unità originarie; nel contempo, stabilisce delle priorità nel processo generativo, di natura perlopiù meccanica (LXXXIV).

La metodica del M. è senza dubbio effetto della concreta analisi, ma diviene anche causa pregiudiziale di una convinzione che suona come un asserto quasi dogmatico: « Such triggering or generation necessarily has a piecemeal character: the preexisting Hebrew text, as represented by Sept., has generated a kind of expansion which does not serve the ends of a thoughtful, all-embracing redaction or a superintending, theological tendency » (LXXXI-LXXXII). Certo, il M. ha diritto come autore di un commentario biblico, che ben conosce il testo, di fare tali affermazioni; anzi, la sua posizione è da tenere sempre presente come testimonianza autorevole di un procedimento esegetico che la sa lunga sulle pregiudi­ziali di vari studiosi. E tuttavia, è da guardarsi bene anche dal ritenere ultimative le affermazioni del M. circa l'assoluta assenza di progetto teo­logico nell'attuale libro di Geremia. E' proprio la strutturazione dei testi presente nei LXX (oracoli di giudizio contro Israele-Giuda, oracoli contro le nazioni, oracoli salvifici), simile ad una configurazione analoga, d'epoca vicina, in altri libri profetici, che legittima a pensare perlomeno a ten­tativi dì dare una certa sistemazione teologica (come e fino a che punto, è tutto da studiare sul campo) ai vari blocchi testuali del libro dì Geremia.

Coerentemente con la sua teoria del « corpo rotolante », l'a., nella quinta parte, dibatte la questione circa la validità della teoria di più fonti, prospettata dal Mowinckel e dal Rudolph sulla base dei presunti indizi dati dal e. 36 (un rotolo originario e un secondo ampliato), respin­gendone in definitiva il modo di affrontare i testi. Non si tratta, a detta del M., di mettere poesia contro prosa, stabilendo così ciò che è gere-miano e ciò che non lo è; piuttosto, è da considerare geremiano tutto il processo genetico che dai nuclei geremiani (poetici) ha aggregato nuove e locali esegesi.

Di particolare interesse è quanto l'a. dice nella sesta parte. Egli cri­tica quell'atteggiamento esasperato del metodo storico-critico, che vuol trovare dietro il dato testuale, in questo caso, il libro di Geremia, precisi retroterra storici con tutti i dettagli. Personalmente, sento di condividere questa posizione di sano scetticismo di fronte ad ingenue pregiudiziali positiviste. Lo stesso atteggiamento metodologico mostra il M. nella parte seguente, ove tratta delle lamentazioni di Geremia, conosciute anche come « confessioni ». Egli sgancia la loro interpretazione da un eccessivo e pedante trattamento  « formgeschichtlich »  (influenza  dei  Salmi)  e, ammettendo la possibilità che nelle composizioni poetiche in questione vi siano degli autentici tratti autobiografici del Profeta, aggiunge che in esse è fortemente evidente l'attività (che egli concede di chiamare deutero-nomica) della comunità esilica. E' questa, difatti, che proietta nelle la­mentazioni di Geremia gl'interrogativi della catastrofe dell'esilio.

L'ultima stoccata a fondo, però, contro una tipica predisposizione della critica delle forme, il M. la dà nell'ultima parte, ove tratta breve­mente di ciò che è esegesi e ciò che è teologia. La motivazione del di­scorso è data dalla convinzione che un commentario biblico è un testo di esegesi, che ha cioè a che fare con il testo e quindi con il linguaggio umano. Perciò, secondo l'a., suo compito non è di fare teologia, che è un discorso metalinguistico. E' sulla base di ciò, che egli afferma: « In these connections the effects of form-criticism have been baneful, in so far as it has been supposed that a form-critical category ("word of God" — a prophetic oracle) can be converted simply into a theological cate­gory and taken as a demonstration that the "speaking" God has a serious contribution to make to the theology of prophecy» (p. XCIX).

Questa « secchezza » metodologica, che in tedesco si potrebbe chia­mare « Sachlichkeit », il M. l'adopera magistralmente nel commentario.

 


 


 
 
 
 
 
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