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Revista Antonianum
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Foto Conti Martino , Miscellanea: Nuovi evangelizzatori per la nuova evangelizzazione, in Antonianum, 69/1 (1994) p. 78-96 .

SUMMARY: Of the «new evangelisation» and of the necessity of «new evangelisers» John Paul II has often spoken in his apostolic journeys and particularly in the Encyclical Letter Redemptoris Missio. The theme, treated at a biblical level, is ali concerned with the «new evangelisers for the new evangelisation». The study is subdivided in three sections: the first illustrates the figure of the «new evangelisers»; the second speaks of the evangelisers as wi-tnesses to the hope which is in them (1 Pt 3, 15); the third comprises evident forms and me-thods of evangelisation, as they appear in the New Testament (proclamation of the faith to believers and non-believers; to the Jews and to the Gentiles), and the model of «re-evange-lisation» offered by St. Paul in the letter to the Galatians.

Lo studio che affronto in queste pagine, è orientato ad approfondire a livello biblico la metodologia più attuale della missione, e verte intorno alla figura dei «nuovi evangelizzatori per la nuova evangelizzazione»1. Come   pista   di   riflessione   biblica  viene   privilegiato   l'assioma  petrino:

«Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della spe­ranza che è in voi» (1 Pt 3,15).

Lo studio si articola in tre patti: nella prima parte tratto della figura dei nuovi evangelizzatori; nella seconda, della speranza che è in noi; nella terza, della nuova evangelizzazione.

1. - Evangelizzatori «nuovi»

Gli evangelizzatori sono degli inviati speciali di Cristo. Ad essi è affi­dato il compito di annunziare il vangelo della salvezza, perché, anche per mezzo del loro ministero, la parola di Dio corra (2 Ts 3,1), tutti gli uo­mini ascoltino l'annunzio della fede (Gal 1,16.23), credano che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiano la vita nel suo nome (Gv 20,31)2.

La fedeltà al ministero dell'evangelizzazione impone agli inviati di Cristo convinzione e coerenza tra vita e annunzio3. Tutto ciò significa es­sere «nuovi». Nell'esercizio del loro ministero saranno credibili nella mi­sura in cui risulteranno nuovi nella mente, nel cuore e nella coscienza. Questa novità di mente, di cuore e di coscienza richiede negli evangeliz­zatori una mente nuova illuminata dal vangelo, un cuore nuovo capace di amare sull'esempio di Cristo, una coscienza nuova capace di agire in con­formità ai principi del vangelo che vanno proclamando.

1.1 - La figura dell'evangelizzatore

Evangelizzatore è l'evangelista, cioè colui che è inviato ad annun­ziare il vangelo di Cristo4. Il termine «evangelista» ricorre tre volte nel Nuovo Testamento: è detto di Filippo (At 21,8), di coloro che accanto agli apostoli, ai profeti, ai pastori e i maestri, sono impegnati nell'annun­zio del vangelo (Ef 4,11) e di Timoteo, lo stretto collaboratore di Paolo (2 Tm 4,5).

Il numero degli evangelisti doveva essere assai più numeroso di quello che potrebbe sembrare. Per Paolo sono evangelisti tutti coloro che collaborano con lui e combattono per il vangelo (Fil 4,3; 2 Cor 9,18; Col 4,11), o che sono suoi compagni (conservi) nel ministero (Col 1,7). In que­sto senso si possono chiamare evangelisti tutti i collaboratori degli apo­stoli nell'annunzio del vangelo.

Nel Nuovo Testamento il termine evangelista può indicare sia un'at­tività ben determinata, come quella di annunziare il vangelo, sia una fun­zione specifica, come quella del ministero (diakonia) dell'evangelizza­zione. Nei testi sopra menzionati, l'attività e la funzione dell'evangelizza­tore sono svolti in stretta collaborazione e in piena subordinazione dagli apostoli, cioè di coloro che Cristo ha chiamato e inviato a proclamare il regno dei cieli5. In Filippo e in Timoteo la chiamata e l'invio avvengono nella mediazione degli apostoli. Al di fuori dei Dodici (Le 9,1-6) e dei Settantadue discepoli (Le 10,1-12), è la chiesa che in nome e per mandato di Cristo, nel corso dei secoli continua a chiamare e a inviare.

Filippo è del numero dei «sette»: come tale è stato chiamato e in­viato dagli apostoli (At 6); Timoteo è chiamato al ministero da Paolo; gli evangelizzatori della lettera agli Efesini, nominati subito dopo gli apo­stoli e i profeti, sono dei chiamati e inviati nella mediazione della chiesa. Indipendentemente dalle modalità della chiamata, tutti sono ritenuti «collaboratori di Dio» nell'annunzio del vangelo di Cristo (1 Ts 3,2).

Che si tratti di una attività specifica o di un ministero particolare, agli evangelizzatori è affidato il compito di proseguire il lavoro iniziato da Cristo e da lui affidato agli apostoli e ai loro successori. Essi non sono soltanto dei missionari. Ueuaggelion (il vangelo) è insieme predicazione alla comunità dei credenti (evangelizzazione didattica)6 e predicazione missionaria ai non credenti sia gentili che giudei (primo annunzio della fede)7; chi ha ricevuto il ministero {diakonia) dell'evangelizzazione è insieme guida della comunità e annunciatore del vangelo (2 Tm 4,5). Com­pito specifico dell'evangelizzatore è quello di annunziare la parola di Dio (2 Tm 4,2), cioè il vangelo di Gesù Cristo, che è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16-17).

Nella chiesa primitiva gli «evangelisti» erano considerati successori e continuatori dell'opera che Cristo aveva affidato agli apostoli. Eusebio, dopo aver parlato di Panteno, del suo ardore apostolico e del suo girare pieno di coraggio verso la parola di Dio e del suo essersi fatto araldo del vangelo di Cristo tra le nazioni d'oriente, così prosegue: «Allora si conta­vano molti evangelisti che, a imitazione degli apostoli, consacravano le loro cure e il loro zelo veramente divino per diffondere e rafforzare la fede»8. Essi ponevano le basi della fede, per poi andarsene altrove ad evangelizzare. Il lavoro da essi iniziato, veniva proseguito da altri pastori, ai quali affidavano l'incarico di coltivare i neo-convertiti9.

1.2 - La «novitas» negli evangelizzatori

L'idea della novità, che caratterizza tutto il Nuovo Testamento, è espressa da termini antitetici, come «nuovo» e «vecchio», due termini che si richiamano a vicenda10. Sotto l'aspetto qualitativo l'aggettivo «nuovo» è utilizzato per indicare varie cose. Nuovo è detto tutto ciò che ha a che fare con l'opera della salvezza di Gesù. Spesso si parla di «nuova al­leanza» (Mt 26,28; Le 22,20; 1 Cor 11,25; 2 Cor 3,6; Eb 8,8.13; 9,15), «co­mandamento nuovo» (Gv 13,34; 1 Gv 2,7.8), «nuova creazione» (2 Cor 5,17; Gal 6,15), «novità di vita e di spirito» (Rm 6,4; 7,6), «nuovo cielo e nuova terra» (1 Pt 3,13; Ap 21,1), «uomo nuovo» (Ef 2,15; 4,24; 2 Cor 4,16; Col 3,10), «nome nuovo» (Ap 2,17; 3,12), «nuova Gerusalemme» (Ap 3,12; 21,2), «cielo nuovo» (Ap 5,9; 14,3).

La «novitas» richiesta negli evangelizzatori si deve esprimere in tre direzioni: nella vita, nell'esperienza, e nell'azione.

Nella vita: la «novitas», della quale si parla, è collegata alla venuta di Gesù ed ha rappotto con la sua opera di salvezza. In opposizione a «vecchio», «nuovo» sta a indicare la salvezza operata da Cristo e la vita vissuta nella fede in lui. La parabola del vino nuovo e degli otri vecchi (Me 2,21-22; Mt 9,17), stacca nettamente la novità della persona e della predicazione di Gesù dal vecchio del giudaismo e dei gruppi che si riface­vano al Battista11. Come «nuovo» è qualificato l'insegnamento di Gesù, rispetto a quello proposto dai maestri della legge. A proposito dell'inse­gnamento di Gesù diranno: «È una dottrina nuova insegnata con auto­rità» (Me 1,27); del nuovo della sua dottrina, si dice che «insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Me 1,22). In tutto il loro inse­gnamento gli scribi si basavano sull'autorità di altri maestri.

Secondo Paolo la «novitas» deriva dall'essere in Cristo: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura. La vecchia è scomparsa: ecco qui la nuova» (2 Cor 5,17). Per mezzo del battesimo gli uomini vengono trasferiti sotto il dominio di Cristo (essere in Cristo) e partecipano alla nuova creazione di Cristo in forma di adozione. Non si tratta di una qualità psicologico-e-tica, ma dell'azione di un quotidiano «diventare nuovo» (2 Cor 4,16). Ciò avviene per mezzo della forza dello spirito, donato da Cristo, creatore di realtà sempre nuove (Rm 7,6).

All'essere nuova creatura è abbinato un modo di agire nuovo: «Vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (Col 3,9-10; Ef 4,23-24; Rm 12,2)12.

Nell'esperienza di Cristo e del suo vangelo: l'incredibile novità della persona e del messaggio di Cristo, come esige una «novità di vita», così comporta una «novità di esperienza» in coloro che in nome e per man­dato di Cristo sono inviati ad annunziare il vangelo della salvezza. Questa novità è in stretto rapporto con l'esperienza richiesta da Cristo agli evan­gelizzatori: «Venite e vedrete» (Gv 1,39)13. Quanti sono chiamati da Cri­sto a «stare con lui» (condivisione della vita) e a collaborare alla sua mis­sione di salvezza (condivisione della missione) (Me 3,13-15)14, devono fare scaturire il loro annunzio dall'esperienza di vita con Cristo. Essi infatti sono inviati ad annunziare ciò che hanno visto e udito» (1 Gv 1,1-4). L'evangelizzatore non è il ripetitore di un libro che ha letto, ma il testi­mone di una persona che ha incontrato sul suo cammino, che ha cono­sciuto personalmente e della quale condivide la vita e la missione.

Su questa linea si muove San Paolo quando annunzia il vangelo. Rievocando la sua chiamata, nella lettera ai Galati Paolo ricorda che il vangelo da lui annunziato non è modellato sull'uomo (nel caso sarebbe vecchio), ma l'ha imparato per rivelazione di Gesù Cristo. È nuovo per­ché riflette la novità di Gesù Cristo. Dio infatti lo ha scelto (elezione di­vina) e lo ha chiamato (determinato momento storico) per rivelare a lui il suo Figlio (l'uomo nuovo), perché lo annunziasse in mezzo ai pagani (che erano vecchi). La «novitas» di Paolo dipende dunque dalla «novitas» del Vangelo, che per vocazione è inviato ad annunziare ai giudei e ai greci (Gal 1,11-17)15.

3° - Nell'azione: la novità di vita e di esperienza, richiesta da Cristo ai Dodici, ai Settantadue discepoli e a quanti sarebbero loro succeduti lungo i secoli in questo ministero, richiede anche novità di azione. Questa novità di azione si ritrova descritta nei discorsi di missione (Mt 10,7-15; Me 6,7-13; Le 9,1-5). Gesù invia ad annunziare il vangelo del regno delle persone libere (povere), disinteressate (che non vogliono arricchirsi ma fare ricchi gli altri) e che ripongono tutta la loro fiducia in colui che li ha inviati (ti basta la mia grazia)16.

La «novitas» non consiste nel seguire le sicurezze della sapienza di questo mondo (1 Cor 1,17-25), ma nell'annunziare con parresia, cioè con coraggio apostolico (At 4.13.29)17, la parola che salva così come l'hanno ricevuta, senza contrabbandarla o adulterarla, per seguire le mode di questo mondo o per prurito di sapere (2 Cor 1, 17)18.

2. - Testimoni di Cristo Risorto

Il principio teologico che presiede al «mandato» dell'evangelizza­zione non si diversifica dal principio teologico che presiede all'azione sal­vifica di Dio.

Il principio teologico che presiede all'azione salvifica, può essere così espresso:

  • il Padre salva gli uomini
  • per mezzo di Gesù Cristo
  • nella mediazione della chiesa, la quale opera per virtù di Spirito Santo.

Sulla base di Gv 20,21: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi», il principio teologico che presiede al «mandato» dell'evan­gelizzazione può essere così sintetizzato:

  • il Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo
  • chiama e invia gli Apostoli a collaborare alla sua opera di sal­vezza,
  • e nella mediazione della chiesa, che agisce per virtù di Spirito Santo,
  • continua a chiamare e a inviare collaboratori che prolunghino nel tempo la sua opera di evangelizzazione19.

Gli evangelizzatori — perché inviati dal Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo e nella mediazione della chiesa ad annunziare la buona novella della salvezza (At 10,36) e ad ottenere l'obbedienza della fede da parte di tutte le genti (Rm 1,5) —, non sono né filosofi, né sociologi, né economisti, né politici, ecc. Ad essi non è stato affidato l'in­carico di insegnare i principi di una filosofia, o sociologia, o economia, o politica cristiana, ecc., ma sono inviati a proclamare «il vangelo di Gesù Cristo» (Me 1,1)20, cioè il vangelo che ha origine da Gesù Cristo (genitivo soggettivo) e che ha per oggetto Gesù Cristo (genitivo oggettivo)21.

Sulla scia del dettato petrino: «pronti sempre a rispondere a chiun­que vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15), la «novi-tas» degli evangelizzatori in vista della nuova evangelizzazione, si esprime su due direzioni: nella linea dei contenuti e nella linea della modalità. Quanto ai contenuti gli evangelizzatori annunziano la «novitas» della speranza cristiana; quanto alle modalità dell'annunzio, essi sono inviati a farlo «con dolcezza e rispetto».

2.1 - La «speranza» cristiana

La 1 Pt invita tutti i fedeli, in particolare gli evangelizzatori, a ren­dere ragione della speranza» che è in loro (1 Pt 3,15). La «speranza» della quale essi devono rendere ragione può assumere contenuti ed esprimere realtà diversi.

Quanto ai contenuti, questi riguardano Cristo, detto «nostra spe­ranza» (1 Tm 1,1; Col 1,27); la «fede», suscitata dal messaggio di salvezza (Col 1,23); la «vita eterna», della quale per mezzo di Gesù Cristo i cre­denti sono diventati eredi (Tt 1,2; 3,7).

Quanto alle realtà, la «speranza» può essere presente e futura. La «speranza» è una realtà presente, perché la salvezza cristiana è divenuta realtà (il già) in Cristo Gesù (Rm 8,23-24); è una realtà futura, perché il credente è in attesa di ciò che Dio opererà nel futuro (il non ancora) in Cristo Gesù.

Nel corpo paolino la «speranza» tradisce un deciso orientamento cristologico-escatologico: è la «speranza» nella salvezza definitiva operata da Cristo Gesù (Rm 5,1-5) e che tende alla risurrezione (1 Cor 15,19-20), cioè alla glorificazione dei credenti in Cristo, e alla comunione piena con Cristo nella vita futura (1 Ts 4,13-18). Questa «speranza» presente (il già) e futura (il non ancora) sostiene l'apostolo nel suo vivere e nel suo ope­rare (2 Cor 5,6-10; Rm 8,25; 1 Ts 1,3)22.

La 1 Pt con il termine «speranza» designa la religione cristiana (1 Pt 1,3.21; 3,15) e con il verbo «sperare» indica la condotta cristiana (1 Pt 1,13); una condotta che si svolge sotto lo sguardo di Dio, cioè nella san­tità, che è ispirata dalla virtù della religione e che si attua nell'amore fra­terno (1 Pt l,13-22)23.

2.2 - Modalità della testimonianza

La 1 Pt, con il contenuto (la speranza), determina anche le modalità della testimonianza. Vuole che «questa sia fatta con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1 Pt 3,15b-16a). L'apologia (apologia) assume contenuto e modalità diverse a secondo che si tratta di una difesa vera e propria della religione cristiana davanti ai tribunali (caso di persecu­zione), oppure di una presentazione della propria fede a chi desidera co­noscerla24.

Chi chiede al cristiano ragione della «speranza che è il lui», cioè della propria fede, può essere un giudice o un funzionario oppure un amico o un nemico personale. Il quesito può essere posto per curiosità, aggressività o anche per desiderio di conversione. È difficile stabilire il senso esatto dell'insegnamento della 1 Pt. Forse conviene tenerla aperta a tutte le interpretazioni. Una cosa è certa: la 1 Pt insegna come deve es­sere la difesa. Nel rendere ragione della «speranza che è in loro», cioè nel proclamare con interezza e sicurezza la propria fede cristiana, i bat­tezzati non devono né offendere né assumere atteggiamenti arroganti; al contrario la difesa deve essere fatta «con dolcezza e rispetto e con una retta coscienza».

Se questa metodologia, suggerita dalla 1 Pt, vale per i battezzati, a maggior ragione deve valere per gli evangelizzatori, se vogliono essere veramente «nuovi». Nel rendere ragione della speranza che è in loro, gli evangelizzatori non devono né arrabbiarsi né attenuare o adulterare il contenuto del vangelo. Questo dovrà essere annunziato integralmente. Inoltre si richiede «retta coscienza». Gli evangelizzatori sono veramente «nuovi» se la loro condotta sarà «bella e buona» (kalé), tale cioè da im­porsi all'attenzione di tutti, anche di quelli che li accusano. Sarà proprio la loro condotta «bella e buona» davanti a Dio e davanti agli uomini a chiudere la bocca a coloro che li accusano; in questo caso le loro accuse si dimostreranno prive di fondamento. La più bella «apologia» che i bat­tezzati, e gli stessi evangelizzatori, potranno fare è rappresentata dalla loro condotta «bella e buona» in Cristo (1 Pt 3,16).

Una difesa o una presentazione della fede cristiana fatta con arro­ganza, collera o fanatismo, cioè perdendo il controllo di sé, non convince nessuno, anzi diventa una controtestimonianza. San Pietro condanna questo zelo fuori posto ed esorta tutti a conservare la dolcezza, rivelatrice della vocazione cristiana25.

Qualcosa di simile si trova nel discorso missionario di Matteo. Dopo aver dettato le norme che regolano l'apostolato cristiano (Mt 10,7-15), G6sù ricorda ai Dodici e agli evangelizzatori di tutti i tempi, che sono in­viati «come agnelli in mezzo ai lupi», cioè in un mondo ostile, il quale reagirà all'annunzio della parola di Dio con la persecuzione. Il loro an­nunzio dovrà pertanto essere caratterizzato da prudenza e da semplicità, espressione di fortezza: «prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Questi due atteggiamenti devono integrarsi nell'atti­vità apostolica26.

L'evangelizzatore dovrà essere prima di tutto «prudente come i ser­penti», capace cioè di muoversi con circospezione e cautela, per non pro­vocare e così rischiare di compromettere la diffusione del regno; nello stesso tempo dovrà essere «semplice come le colombe», capace cioè di avvicinarsi a tutti senza diffidenza e timore. La prudenza, se eccessiva, si trasformerebbe in paura, e quindi comprometterebbe la diffusione della parola; questa deve essere completata da un fiducioso abbandono, che permetta la continuazione della proclamazione della parola anche in mezzo ai pericoli, nella convinzione che Dio protegge sia il suo messag­gero che il messaggio da lui inviato. La garanzia della protezione divina nella Scrittura è espressa dalla formula: «io sono con te, non temere»; «io sono con voi, non temete», che si legge in ogni vocazione individuale (Es 3,12; Gdc 6,16; Ger 1,8, ecc.)27.

3. - La nuova evangelizzazione

L'evangelizzazione per essere veramente nuova, oltre che esprimere il contenuto tipico della radice ebraica bissar2*, deve rispondere a tre do­mande: cosa dire {contenuto), a chi dire {destinatari), come dire {linguag­gio).

Nel N.T. Veuaggelion (evangelo), come la radice ebraica bissar, rive­ste un contenuto religioso, esprime speranza e significa proclamare «un lieto annunzio» (Le 1,19), che è motivo di gioia per tutto il popolo (Le 2,10). Gesù si presenta come il messaggero di gioia atteso per la fine dei tempi, che annunzia ai poveri la «buona notizia», che proclama la libera­zione e la salvezza di Dio (Le 4,18-19)29.

Tutta la vita di Gesù, dalla nascita (Le 2,10) alla pasqua (At 13,32; 17,18), con tutto ciò che ha fatto e insegnato (At 1,1), è un euaggelion (lieto annunzio), e come tale è ripreso e riproposto dalla chiesa. È Dio stesso che per mezzo di Gesù Cristo reca agli uomini la buona notizia della sal­vezza (At 13,26) e della pace (At 13,36). Salvezza e pace, divenute realtà mediante Gesù Cristo, Signore di tutti (At 10,36), costituiscono il conte­nuto della «buona novella» (Le 2,14).

Per essere «nuova», l'evangelizzazione deve risuonare agli uomini del nostro tempo come «un lieto annunzio» (contenuto). Il variare dell'u­ditorio (destinatari) comporta anche una variazione di «metodo» e di «forme» nell'annunzio del vangelo (linguaggio).

Quanto al «metodo», l'evangelizzazione può essere esortativa o di assemblea; quanto alle «forme», la stessa evangelizzazione varia a se­condo che è destinata agli ebrei o ai gentili, oppure se destinata ai cre­denti in Cristo o ai non credenti30.

3.1 - Forme e metodo dell'evangelizzazione

Un problema di grande attualità, che si è posto alla chiesa fin dalle origini, è quello relativo al «metodo» di annunziare il vangelo e alle «forme» dell'evangelizzazione.

Conforme all'insegnamento del Signore, la nuova evangelizzazione dovrà conoscere un duplice metodo: uno capillare di casa in casa (Mt 10,12; Le 10,5-7), che oggi chiameremo «ministero a domicilio»31, e uno di assemblea sulle pubbliche piazze o nei luoghi di raduno (Le 10,8-9)32. L'evangelizzazione di assemblea rischia di restare superficiale e ineffi­cace, se non è accompagnata e rafforzata dall'approfondimento, frutto di contatto personale.

Fedeltà alla legge dell'ospitalità (Mt 10,11; Me 6,10; Le 9,4), evange­lizzazione di assemblea - iniziando dalla sinagoga (At 13,14-42; 14,1; 17,2-4.10-12) -, costante lavoro di approfondimento e di esortazione alla perse­veranza su ciascun convertito alla fede (At 13,43; 20,31): queste le carat­teristiche della missione evangelizzatrice di Paolo33.

Il diverso uditorio, al quale il vangelo viene annunziato (giudei o gentili), comporta anche una diversa forma di evangelizzazione. Il pro­blema si è posto per la prima volta in termini drammatici in occasione del primo viaggio apostolico di Paolo, quando Marco, che non condivi­deva il metodo di Paolo, abbandonata la comitiva apostolica se ne è tor­nato a Gerusalemme (At 13,13).

Nell'opera dell'evangelizzazione è necessario che i «ministri della parola» (Le 1,2) operino una netta distinzione tra contenuto e modo di proporre il messaggio cristiano. Cosa non sempre facile, perché ogni evangelizzatore è istintivamente portato a identificare l'annunzio con la propria cultura.

L'evangelizzazione cambia forma quando è rivolta agli ebrei o ai gentili. Il diverso modo di presentare Cristo agli ebrei e ai gentili ha dato origine a due diversi tipi di catechesi: la catechesi ad hebraeos e la cate­chesi ad gentes. L'esistenza di queste due forme di catechesi è attestata da Gal 2,7. La prima forma di catechesi, quella agli ebrei, privilegia la testi­monianza di Dio (At 1,20; 2,25-28 = testimonianza biblica); la seconda, quella ai gentili, si fonda sulla testimonianza di testimoni oculari: «Noi siamo testimoni» (At 10,39)34.

L'annunzio del Vangelo assume forme particolari anche quando è rivolto ai non credenti o ai credenti in Cristo. Nell'uno e nell'altro caso, oggetto dell'annunzio è sempre il vangelo di Gesù Cristo, cioè che viene da Gesù Cristo (genitivo soggettivo) e che riguarda Gesù Cristo (genitivo oggettivo). Nel primo caso si parla di evangelizzazione kerigmatica o mis­sionaria (= primo annunzio della fede); nel secondo caso, di evangeliz­zazione didattica ( = approfondimento della fede).

L'evangelizzazione kerigmatica o missionaria, in quanto primo an­nunzio della fede, è destinata a suscitare la fede; l'evangelizzazione di­dattica, nelle sue varie forme, è destinata ad approfondire la fede in chi già crede e tende a creare una mentalità di fede, cioè ad aiutare i cre­denti a risolvere i problemi di ogni giorno alla luce della fede e ad agire in tutte le situazioni in conformità alla fede.

Le due forme di evangelizzazione, risalendo a Cristo e agli Apostoli, sono attestate dalla predicazione di Cristo {Vangeli) e dalla predicazione apostolica (Atti, Lettere). Queste due forme di evangelizzazione sono es­senziali anche oggi alla chiesa per divulgare la fede, per approfondirla in coloro che già credono e per recuperare alla fede quanti per motivi vari l'hanno abbandonata.

3.2 - Forme di annunzio della fede

Luca negli Atti degli Apostoli ci offre tre forme «tipo» di annunzio della fede: agli ebrei, ai gentili e ai responsabili della comunità cristiana. Queste forme di evangelizzazione ritmano i tre viaggi apostolici di Paolo. Il primo discorso, che ha come destinatari gli ebrei (At 13,16-41), caratte­rizza il primo viaggio di Paolo (At 13,1-14,28); il secondo, destinato a un gruppo altamente qualificato di gentili (At 17,22-31), caratterizza il se­condo viaggio di Paolo (At 15,36-18, 22); il terzo, indirizzato agli anziani della chiesa di Efeso (At 20,18-35), caratterizza il terzo viaggio di Paolo (At 18,24-21,17). Questi discorsi, per il contenuto e per la metodologia, diventano paradigmatici per la nuova evangelizzazione. Questa, per es­sere efficace, dovrà tener presente sia i destinatari ai quali il messaggio è destinato, sia i contenuti.

3.1.1 - Annunzio della fede agli ebrei

Il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, rivolto ai giudei, è strutturato sulla base della storia della salvezza: preparazione (tempo d'Israele), realizzazione o compimento (tempo di Cristo), attualiz-zazione (tempo della chiesa). Paolo rievoca sommariamente le tappe sa­lienti della storia della salvezza nella fase di preparazione (At 13,17-22), per passare poi ad annunziarne la realizzazione in Cristo morto e risorto (At 13,23-37) e Pattualizzazione per mezzo del ministero apostolico della chiesa (At 13,38-41)35. Questi in sintesi gli elementi del kerigma:

  1. dalla discendenza di Davide, secondo le promesse, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù (At 13,23). La sua venuta è stata preparata da Giovanni, che ha predicato un battesimo di penitenza a tutto il popolo d'Israele (At 13,24-26);
  2. non riconosciuto dagli abitanti di Gerusalemme e dai loro capi, Gesù è stato ucciso, deposto dalla croce e sepolto (At 13,27-29), ma Dio lo ha risuscitato dai morti ed egli è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme (At 13,30-37);
  3. segue 1' invito alla conversione: per il ministero apostolico della chiesa viene «ora» annunziata ad essi la salvezza in Cristo e la remissione dei peccati. Chi crede riceve la salvezza (At 13,38-41). È P«oggi» della sal­vezza che risuona per il ministero della Chiesa.

3.1.2 - Annunzio della fede ai gentili

Il discorso di Paolo all'Areopago di Atene (At 17,22-31) resta emble­matico per qualsiasi tipo di annunzio della fede ai gentili. La ragione di questo discorso di Paolo ad Atene va colta nel significato che questa città aveva nel mondo di allora. Essa non contava più nulla sul piano politico, ma era la città universitaria per eccellenza, la capitale culturale del mondo. All'Areopago si ha di fatto l'incontro del messaggio evangelico con la sapienza dei greci (approccio fede-cultura). Si tratta di un incontro esemplare della fede cristiana con il mondo greco36, come esemplari sono gli altri due discorsi, quello di Antiochia di Pisidia e quello di Mi-leto.

Nell'annunziare la fede ai gentili, Paolo prende le mosse da ciò che gli ateniesi hanno di positivo: sono molto religiosi e tra i vari altari ne hanno anche uno dedicato al «Dio ignoto». Paolo prende lo spunto da questi dati positivi per annunziare loro Cristo risorto e la conversione. Il discorso è articolato in tre parti:

  1. Esordio (At 17,22-23): la frase iniziale sottolinea la religiosità degli ateniesi. Paolo può parlare della loro pietà, perché girando intorno, fra le altre cose, ha trovato un altare dedicato al «Dio ignoto». Pren­dendo lo spunto da questo fatto, Paolo precisa l'oggetto del suo discorso: «quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio».
  2. Corpo del discorso (At 17,24-29): nel corpo del discorso si possono distinguere due temi, il primo di carattere cosmologico (w. 24-25) e il se­condo di carattere antropologico (w. 26-29). In due frasi, Paolo sviluppa l'annunzio del vero Dio e determina i suoi rapporti con il mondo creato e in particolare con l'uomo.

Il «Dio ignoto», che Paolo presenta agli ateniesi è il Dio della Bib­bia, creatore dell'universo, distinto dal mondo creato, signore del cielo e della terra, che non abita in templi costruiti dalle mani dell'uomo. Dal momento che tutto viene da lui, Dio non ha bisogno né di templi, né delle offerte che gli vengono in essi presentate.

Il «Dio ignoto» di Paolo non è un Dio immanente, ma trascendente; è il Dio che ha creato l'uomo, che lo ha circondato di benefici, che non è lontano da ciascuno di noi. Poiché «in lui viviamo, ci muoviamo e siamo», e con lui siamo imparentati, è assurdo equiparare Dio a oggetti materiali.

     c) Conclusione (At 17,30-31): il discorso termina con la presentazione del messaggio cristiano e l'invito alla conversione nella prospettiva del giudizio. Gesù risorto viene presentato  come  il giudice  universale  ed escatologico (ultimi tempi). Del kerigma cristiano è ricordato l'atto più importante, cioè la risurrezione di Cristo, e la conversione.

3.1.3 - Annunzio della fede ai responsabili della chiesa

Ricorrendo al genere letterario dei «discorsi d'addio», noto all'A. e al N.T., Paolo a Mileto si rivolge ai responsabili della chiesa di Efeso (At 20,17-38), alla quale egli ha dedicato più cure. Quasi a modo di testa­mento, Paolo ricorda loro ciò che ha fatto per la chiesa di Efeso (At 20,18-21), espone la propria situazione e disposizione presente (At 20,22-24), getta uno sguardo sull'avvenire (At 20,25-31) e termina con alcune racco­mandazioni (At 20,32-35), prima di congedarsi con la preghiera e il bacio santo (At 20,36-38)37.

In questo discorso, unico esempio di predicazione concernente i cri­stiani, Paolo rivela tutta la sua sollecitudine per la comunità da lui fon­data ed esorta i pastori ad essere solleciti della chiesa che Dio si è acqui­stata con il sangue del proprio figlio. Nello stesso tempo ricorda agli an­ziani che l'avvenire delle comunità, più che da loro, dipende dalla grazia di Dio.

3.2 - Forma di rievangelizzazione

Un esempio tipico di rievangelizzazione ci è offerto da Paolo nella lettera ai Galati. Affascinati dalle idee dei giudaizzanti, che vanno predi­cando la necessità della circoncisione e dell'osservanza della legge e delle consuetudini giudaiche per conseguire la salvezza (Gal 2,1-21; At 15,1-35), i cristiani della Galazia hanno di fatto abbandonato il vangelo predicato loro da Paolo per seguire un'altro vangelo. Paolo ricorda loro che il van­gelo è unico e immutabile (Gal 1,6-10).

Il tema dell'unicità e immutabilità del vangelo è sviluppato in due parti. Nella prima parte (Gal 1,11-4,10), mediante una duplice dimostra­zione, prima positiva (Gal 1,11-3,9) poi negativa (Gal 3,10-4,10), Paolo af­fronta due problemi scottanti, cari ai giudaizzanti: il rapporto vangelo-circoncisione e il rapporto vangelo-consuetudini giudaiche; nella seconda parte, di carattere pastorale (Gal 4,11-6,10), l'Apostolo tenta il recupero dei Galati alla fede nel vangelo da lui annunziato.

Dopo aver affermato che il vangelo è unico e immutabile (Gal 1,6-10), Paolo dichiara che il vangelo da lui annunziato è immutabile perchè lo ha ricevuto per rivelazione divina (Gal 1,11-24). Esso è immutabile quanto alla circoncisione e quanto alla legge: quanto alla circoncisione, ha dalla sua parte l'insegnamento degli apostoli (Gal 2,1-10); quanto alla legge, ha dalla sua parte l'incostanza di Pietro (Gal 2,11-21). L' immutabi­lità del vangelo è confermata dall'esperienza dei Galati (Gal 3,1-5), dal­l'esperienza di Abramo (Gal 3,6) e dalla stessa Scrittura (Gal 3,8-9).

Nella dimostrazione negativa, Paolo dichiara che la salvezza non può venire dalla legge, ma solo dalla fede in Cristo, dal momento che, come sta scritto, la legge è fonte di maledizione (Gal 3,10-11). La legge non è un codicillo capace di mutare il patto con Abramo (Gal 3,15-18); essa è stata aggiunta in vista della trasgressione. Scopo della legge è quello di con­durre a Cristo, affinché ottenessimo la giustificazione mediante la fede (Gal 3,19-24).

Paolo conclude la sua dimostrazione positiva e negativa dichiarando che la salvezza si ha solo per la fede in Cristo Gesù e non per mezzo della legge. Per la fede infatti siamo figli, abbiamo rivestito Cristo, siamo di­ventati un solo essere in Cristo Gesù (Gal 3,25-29).

Nella seconda parte (Gal 4,11-6,10), di carattere pastorale, Paolo la­vora per «ripartorire» i cristiani della Galazia a Cristo (= concezione ge­netica dell'evangelizzazione), aiutandoli a riaccettare quel vangelo, che così presto avevano abbandonato (Gal 1,6).

In questa opera di rievangelizzazione, Paolo cerca prima di tutto di riconquistare la fiducia dei Galati, facendo leva sui loro sentimenti del passato (Gal 4,11-20), poi si pone sul loro stesso piano, ragionando in­torno alle nuove acquisizioni dottrinali riguardanti la circoncisione e la legge. Non potrà di fatto formare di nuovo in loro Cristo, ignorando la nuova realtà. Punto d'incontro per la loro rievangelizzazione sarà quella legge giudaica, che prima non conoscevano.

Con l'esempio di Agar e di Sara, Paolo dice ai Galati che chi segue la legge è erede del patto del Sinai, quindi schiavo. Solo chi crede, come Abramo, è libero, figlio ed erede della promessa (Gal 4,21-31). I giudaiz-zanti si sono presentati ad annunziare loro un vangelo diverso da quello che Paolo aveva loro predicato, e vanno insegnando la necessità della cir­concisione e dell'osservanza della legge per conseguire la salvezza. Resi liberi in Cristo (Gal 5,1), i Galati non devono ora rendersi schiavi né della circoncisione (Gal 5,2-12) né della legge (Gal 5,13-25).

Paolo dichiara che se si fanno circoncidere, Cristo non gioverà loro nulla; entrando di fatto nell'economia dell'antica alleanza, sono tenuti a osservare tutta quanta la legge. In Cristo Gesù non è la circoncisione ( = lo stato di circoncisione) o l'incirconcisione (= lo stato di non circonci­sione) che conta, ma la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6). Dopo aver affermato che i Galati sono persone libere (Gal 4,31) e che questa libertà viene loro da Cristo (Gal 5,1), Paolo li esorta caldamente a stare saldi e a non ricadere sotto il giogo della schiavitù.

I nuovi evangelizzatori hanno di fatto turbato la fede della comu­nità, insegnando loro due nuove verità, che prima non conoscevano: la necessità della circoncisione (è necessario farsi circoncidere) e la neces­sità dell'osservanza della legge per conseguire la salvezza (è necessario osservare le consuetudini giudaiche). Cristo da solo non sarebbe suffi­ciente per salvarsi. Ecco quello che Paolo dice loro per quanto riguarda la circoncisione e per quanto riguarda la legge.

A proposito della circoncisione: se vi fate circoncidere, Cristo non ha fatto nulla per voi. A chi si fa circoncidere dichiara che è obbligato a os­servare tutta quanta la legge. Chi cerca la giustizia (= salvezza) nella legge, spezza i legami con Cristo ed è decaduto dalla grazia. È infatti dallo Spirito e in virtù della fede che i fedeli devono attendere la spe­ranza della giustizia (Gal 5,2-12).

A proposito della legge, Paolo ricorda che i cristiani sono chiamati alla libertà, e che non devono servirsi della libertà per vivere secondo la carne. La fede del cristiano non deve essere una fede sterile, ma una fede che opera mediante la carità e pone gli uni al servizio degli altri. Tutta la legge infatti si compendia in questo solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Di qui l'invito a camminare secondo lo Spirito e a non appagare i desideri della carne. La fede non è libertinaggio, ma principio interiore di carità. Chi si lascia guidare dallo Spirito, non è più sotto il regime della legge, ma sotto il regime dello Spirito e compie le opere dello Spirito che sono: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,13-25).

4. - Conclusione

Sulla base dei dati acquisiti, si possono trarre alcune conclusioni, im­portanti alla chiarificazione del tema prescelto. Per. essere veramente nuova l'evangelizzazione dovrà fare attenzione ai contenuti (cosa dire), ai destinatari (a chi dire) e al linguaggio (come dire).

I contenuti riguardano «la speranza che è in noi», cioè la fede cri­stiana, o il vangelo eterno come amava chiamarlo San Bernardino da Siena. Di qui l'importanza per i nuovi evangelizzatori di conoscere la pa­rola di Dio per poterla annunziare. L'ignoranza delle Scritture è infatti ignoranza di Cristo (DV 25). Come si esprime san Paolo, «il vangelo è potenza (dynamis) di Dio per la salvezza di chiunque crede; è in esso (cioè nel vangelo) che si manifesta la giustizia (= salvezza) di Dio (Rm 1,16-17).

Una particolare attenzione dovrà essere posta nella conoscenza dei destinatari dell'annunzio. L'annunzio è sempre lo stesso: Cristo e il suo vangelo, ma come si è visto nei tre discorsi emblematici degli Atti degli Apostoli, che ritmano i viaggi apostolici di Paolo, il modo di annunziare Cristo varia a secondo che il messaggio è rivolto ai giudei, ai gentili o ai responsabili della comunità cristiana.

Nell'annunzio del vangelo Paolo parte da ciò che unisce e non da ciò che divide: rivolgendosi agli ebrei, ciò che accomuna l'evangelizzatore e gli ascoltatori è la speranza messianica; parlando ai gentili, in un dialogo fede-cultura, ciò che li accomuna è la religiosità popolare e la fede nell'e­sistenza in un «Dio» — noto a Paolo ma «ignoto» (sconosciuto) ai gentili —, creatore di tutte le cose e dello stesso uomo, del quale si è sempre preso cura; rivolgendosi ai responsabili della comunità cristiana, ciò che li accomuna è la cura pastorale dei fedeli, derivante dalla comune voca­zione-missione.

Quanto al linguaggio, nell'annunzio del vangelo Paolo non disdegna di appropriarsi delle categorie in uso nel suo tempo; solo le svuota di un contenuto e le riempie di nuovo contenuto, che sempre prende in prestito dalla Scrittura.

L'abbandono in massa da parte di molti cristiani dalla fede che hanno imparato dai genitori dai nonni e dai loro sacerdoti, impone alla chiesa «oggi» un discorso serio sulla rievangelizzazione. I nuovi evange­lizzatori dovranno guardare con sempre maggior interesse alla lettera ai Galati ed assumerla come modello biblico di autentica rievangelizza­zione. Nel riproporre l'unico e immutabile vangelo, i nuovi evangelizza­tori, come Paolo, non potranno prescindere dalle nuove acquisizioni dot­trinali. Queste possono essere di matrice diversa: religiose (sette reli­giose, religioni orientali, pratiche superstiziose ed esotiche, ecc.), sociali (giustizia e pace, consumismo, nuove povertà, ecc.), culturali (concezioni filosofiche del mondo, dell'uomo, di Dio, ecc.). Partendo da queste nuove realtà è possibile fare un vero e serio discorso di rievangelizzazione. Ignorarle significherebbe precludersi la strada alla loro rievangelizza­zione, al fine di generare di nuovo in loro Cristo.

Infine una parola sui nuovi evangelizzatori. Per essere tali dovranno continuamente confrontarsi con la parola di Dio e in particolare con due testi biblici: Me 3,13-15 e 1 Gv 1,1-4. Secondo la testimonianza di Marco, l'evangelizzazione deve scaturire dall'esperienza di vita con Cristo. L'e­vangelizzatore non è inviato a spiegare un libro che ha letto, ma a procla­mare una persona che conosce personalmente e della quale ha fatto e continua a fare esperienza. Secondo la 1 Gv l'evangelizzatore, inviato ad annunziare il Verbo della vita, è un testimone di ciò che ha visto e udito (1 Gv 1,3), cioè i fatti e le parole di Cristo, e a spiegarne il significato sal­vifico per gli uomini di oggi. Ad essi Dio ha affidato «la parola della riconciliazione» perché fungano da ambasciatori per Cristo (2 Cor 5,19-20).

Dagli evangelizzatori Cristo non pretende il successo nell'aposto­lato, ma la piena dedizione alla causa del vangelo. In caso di insuccesso, Cristo non vuole che i suoi inviati si scoraggino, ma che accettino la legge: «altro chi semina, altro chi raccoglie» (Gv 4,37), nella piena consa­pevolezza che l'incremento viene da Dio (1 Cor 3,7; Me 4,27). Solo chiede che l'eventuale insuccesso non debba attribuirsi a negligenza nel procla­mare la parola, a mancanza di convinzione o a incoerenza tra annunzio e comportamento.

Ricolmi di tanta parola di Dio, gli evangelizzatori adempiono alla loro missione consapevoli di compiere un atto di culto e di amore verso Dio (Rm 15,16) e di amore verso i fratelli ai quali sono inviati, e animati da ferma speranza che prima o poi quella parola porterà frutto. An­ch'essi, come la chiesa, dopo aver ascoltato interiormente la parola di Dio, la proclamano animati con ferma fiducia che anche «per» (il loro) annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» (DV 1).


 


 
 
 
 
 
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