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Rivista Antonianum
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Foto Machowski Richard Marcin , Miscellanea: La porta di Mazeo e Mitridate in Efeso nela quadro evergetico dell'ideologia augustea, in Antonianum, 69/1 (1994) p. 97-106 .

SUMMARY: The intent of this article is to study Hellenistic and Roman Ephesus, modem Selcuk: first, with a few historical notes and a general layout of the city; secondly, the Augu-stan propylon of Mazaeus and Mithridates from its architectural and epigraphic remains with a special emphasis on the Greek and Roman inscriptions; and, finally, to conclude with a consideration of the cult of the Gens lidia in this city.

1. Efeso. Premessa storica e pianta generale della città ellenistìco-romana.

Tra i numerosi insediamenti del mondo antico destinati a godere di vita lunga e prospera, pur attraverso l'avvicendarsi di dominazioni di­verse, la città greca di Efeso (moderna Selguk) occupa sicuramente un posto di primaria importanza storica e culturale.1

Fondata, stando alla tradizione, nel sec. XI a.C. da un gruppo di Ioni guidati da Androkles, dovette la sua fortuna alla posizione strate­gica, che ne faceva uno snodo di transito di primaria importanza tra Oriente e Occidente.

Sorse, infatti, sulla costa dell' Asia Minore, alla foce del fiume Cai-stro ed allo sbocco della grande «via reale» di accesso all' Anatolia, assu­mendo ben presto fama e prestigio grazie all'antichissimo e veneratissimo Artemision (fig. 1, n. 73), cioè al tempio dedicato ad una divinità femmi­nile, tipica del substrato culturale mediterraneo, legata alla fertilità, suc­cessivamente assimilata alla greca Artemis ("Ao/teuis).

Sottomessa al giogo persiano di Ciro, Efeso ebbe solo brevi paren­tesi di autonomia. Visse in libertà e serenità con Alessandro Magno, ma seguì le sorti delle altre città della Ionia: conquistata da Antioco nel 196

a.C, fu poi ceduta dopo la sconfitta che a costui inflissero i Romani, al re di Pergamo, per passare definitivamente in mano romana nel 129 a.C, di­venendo capitale della provincia d'Asia.

La città ellenistico-romana, ben protetta dalle mura a blocchi squa­drati, con torri, lungo un perimetro di ca. 8 km., volute da Lisiaco nel 287 a.C. (fig.l, n.17), si estese su due colline, il Coresso (Kognooós = Bùlbùl Dagi) ed il Pio (IJiwv = Panayir Dagi), degradanti verso la costa; nella depressione fra le due fu costruito il porto, un bacino ovale, comunicante con il mare per mezzo di un canale. Immediatamente a ridosso del bacino portuale si sviluppò un insediamento abitativo a prevalente carattere commerciale, successivamente riorganizzato in età romana, quando si sentì l'esigenza di allacciare il nucleo mercantile urbano con il nuovo im­pianto destinato all'attività civile.

Il collegamento avvenne mediante vie di percorrenza che, per il tra­mite dei passaggi enfatizzanti l'ingresso, permettessero un flusso di fre­quentazione dal porto alle strutture più interne, attraverso le due piazze principali.

Così la grande via porticata, nota attualmente come Arkadiané ( 'Agxaòiavfj) per i restauri del tempio di Arcadio (fig. 1, n. 5), muoveva dal portico tramite una porta monumentale con colonne ioniche (fig. 1, n.2). Da essa ci s'immetteva nell'àyoQa commerciale (fig. 1, n. 30), dopo la quale, risalendo la seconda importante arteria, la via dei Cureti (fig. 1, n. 48), che procedeva tra sepolcri, terme, templi, edifici pubblici e quar­tieri di abitazione, si poteva raggiungere l'àyogó civile (fig. 1, n. 56), per poi lasciare nuovamente il centro, uscendo dalla porta di Magnesia (fig.l,n.70).

L'dyooà commerciale (fig. 1, n. 30; fig. 2), d'impianto ellenistico, constava di un vasto quadrato di ca. m. 160 di lato, con clessidra al cen­tro. Tutto intorno correva una crcod a due navate, arricchita su tre lati da botteghe (jTco>aiTfJQia), forse a due piani. Il lato orientale aderiva ad una crcod esterna di ordine dorico. Due gli accessi principali: uno sul lato ovest, con un jigoruXcuov a doppio colonnato ionico; uno sul lato sud, con un altro irgoruXcuov a triplice passaggio.

La peculiarità architettonica ed il messaggio ideologico che trasmet­teva, rendono quest' ultimo degno di un esame particolarmente detta­gliato.

2. Il propylon augusteo di Mazeo e Mitridate.

2.1. Anatomia architettonica ed apparato figurativo.

L'ingresso edificato nell'angolo sud-orientale del recinto dell'avoca TETQàycova (piazza quadrata) oltre a costruire la cerniera (oroo^eus) tra il quartiere marittimo e quello più interno, poneva l'accento sull'area ur­bana a sud-est, oggetto di un intenso programma di riorganizzazione ur­banistica in età augustea con l'edificazione del jtoirraveiov e dell'adia­cente santuario del poi>À£utf}Qiov e dell'avoca civile con l'annessa basi­lica (fig. 1, rispettivamente nn. 61, 62, 63, 56, 64). Divenuto polo di attra­zione per i successivi interventi imperiali, come il tempio di Adriano (fig. 1, n. 41) o il vi>n(f>aiov di Traiano (fig. 1, n. 49), oltre che di una ben quali­ficata edilizia residenziale, il propylon (kqójwXov) determinò addirittura un'inversione di tendenza nell'edilizia cittadina, attirando presso di sé una costruzione pretenziosa, più tarda di ca. un secolo e nota come «bi­blioteca di Celso» (fig. 1, n. 35; fig. 3), edificata ortogonalmente al sud­detto ingresso.

Quest' ultimo si articola come un arco marmoreo a tre fornici, misu­rante, in pianta, m. 16,90 di larghezza x m. 13 di profondità.

La fronte nord si sviluppa su un unico piano, prospettando verso il portico meridionale dell'avoca (fig. 2). L'altra fronte, invece, con affac­cio verso sud nella piazza antistante alla biblioteca di Celso (fig. 3), è co­stituita da due ali laterali profonde ed in forte aggetto rispetto al fornice centrale (fig. 4). Su entrambe le facciate i tre passaggi sono coperti a volta e tutti della medesima altezza. Si osserva, inoltre, la presenza di porte minori architravate, che, all'interno, mettono in comunicazione il vano centrale con quelli laterali.

L'accentuata articolazione spaziale intrinseca dell'edificio è poi ac­cresciuta dalla presenza di quattro nicchie, ricavate entro i fornici late­rali, due per ogni parete esterna. Non si sa se esse fossero, o meno, desti­nate a contenere statue. Certamente, però, valorizzano il percorso di pe­netrazione, già rilevato dall'aggetto dei due fianchi, implicanti di per sé l'indicazione d'ingresso, animando, in senso attivo, le pareti con spiccato colorismo e con un gusto più vicino a quello dell'ellenismo microasiatico che a quello romano, il quale predilesse semmai l'abside come motivo utile a muovere, in senso passivo, superfici di ampia metratura. Denun­ciando l'interesse per il percorso trasversale, tali nicchie contribuiscono, insolitamente nel caso dei propilei (jroojrùkxia) e stando agli esempi più noti, come fornito di vita propria.

Non mancano, infatti, esempi di precedenti modelli del genere, cui fare riferimento. Tra tutti, ci si può richiamare ai ben noti jtQOJruXaia dell'acropoli ateniese, opera di Mnesikles. Anche per essi fu adottato il

tipo di porta scenografica, con due ali laterali sporgenti, forse derivato a sua volta dalle fortificazioni della cinta urbana, secondo una tipologia ab­bastanza diffusa, che trova la sua applicazione anche nella stessa porta occidentale dell'àYOQd di Efeso. Ma è rara e, sembra, del tutto peculiare della porta meridionale della stessa àyofjd, la tendenza a renderne vivi­bile l'area interna.

L'alzato dell'arco, le cui pareti rimangono parzialmente in sito per un'altezza di ca. m. 3,50, risulta impostato su pilastri angolari di soste­gno; di essi, alcuni sono funzionali al sostentamento degli archi, altri, di dimensioni maggiori e desinenti in capitelli ionici, supportano un archi­trave a tre fasce (fig. 4). Queste ultime risultano costituite, la prima, da una semplice modanatura a listelli paralleli; la seconda da un fregio a gi­rali vegetali, resi con rigida tecnica accademica; la terza da una cornice di coronamento: Al di sopra dell'architrave svetta un alto attico, di ca. m. 2,2, destinato con ogni probabilità ad ospitare imagines (àvóXiiata) di personaggi, in onore dei quali la costruzione era stata innalzata, come si deduce dall'esistenza, sopra di esso, d'incassi per grappe di fissaggio.

Tali imagines avranno certamente riguardato statue-ritratto di perso­naggi della famiglia imperiale Iulia; gli stessi, ed anche altri probabil­mente, che vengono menzionati nell'iscrizione dedicatoria, apposta sul lato dell'attico prospiciente l'ingresso meridionale, dalla quale si ap­prende anche la datazione del complesso, risalente ad età augustea. Alla medesima età augustea, ed in particolare ad Augusto in persona, sono chiaramente allusivi, inoltre, due elementi figurativi, che completano l'ar­redo figurato.

Ci si riferisce, in un caso, ad un particolare del fregio vegetale. Qui, da una foglia a calice si osserva emergere, con il busto, la dea Venere, circondata da piccoli eroti svolazzanti liberamente alle sue spalle, sì da riempire gli spazi vuoti del fogliame. È noto che tale divinità, assunta quale nume tutelare della propria gens da Giulio Cesare, che le volle de­dicare a Roma il foro da lui denominato, onorandola nella valenza di Genitrice, venne universalmente riconosciuta come capostipite degli Iulii in seguito alla strumentazione ideologica messa in atto da Augusto tra­mite il poema virgiliano (v. Ecloga IV, e cf Orazio, Cairn. VII, 2; et al.).

L'altro elemento concerne invece il motivo del bucranio ((Jouxod-vov), ripetuto in posa frontale negli archivolti dei corridoi interni. Mentre non sfugge il requisito trionfale legato a questo simbolo, spesso usato in funzione decorativa sugli archi di trionfo, non sembra sia da sottovalutare la presenza, nella città di Efeso, di un culto per Posidone-toro, mentre, d'altra parte, non è neppure escludibile una relazione Posidone-Augusto, consequenziale alla vittoria di Ottaviano nella battaglia navale di Azio ("Ajctiov) del 31 a.C. (dopo nominata da lui Nixójio^is nell'Epiro).

È evidente a questo punto che la costruzione si poneva come me

dium di un messaggio composito e diversamente leggibile, di cui quello epigrafico costituisce forse la parte più pregnante, ai fini di una valuta­zione complessiva dell'importanza assunta da tale monumento alla luce della nuova politica, inaugurata dal princeps in ogni angolo del suo im­pero.

2.2. L'apparato epigrafico.

Al passeggero, sia civis Romanus che peregrinus, al quale fosse capi­tato di transitare per la porta, magari diretto verso il centro amministra­tivo, dopo aver disbrigato i propri affari nella piazza commerciale, poteva a volte capitare di soffermarsi entro l'arco, al coperto. Qualora costui avesse poi avuto un po' di tempo a disposizione, avrebbe potuto allora leggere, all'interno di esso, gli elenchi degli, àyoQàvouoi, che annual­mente si succedevano nell'amministrazione della città. I loro nomi, in­fatti, sembra comparissero in liste, dipinte o incise, sui pilastri, sull'archi­trave e sugli archivolti dell'edificio.

Ma il principale messaggio iscritto era stato affidato alla superficie dell'alto attico.

Qui correva, infatti, l'iscrizione di dedica, espressa in lettere di bronzo alte ca. cm. 15, la cui doratura, illuminandole ai raggi del sole, ne permetteva già da lontano la fruizione.

Si trattava di un testo bilingue, conservatosi fino a noi, di cui la parte in latino era leggibile sopra gli archi dei due avancorpi laterali; la seconda in greco sopra quello centrale, più rientrato.

La versione latina era quindi suddivisa tra il lato sinistro (a) e quello destro (b) dell'attico, unificati in basso dal nome dei due committenti:

a (sinistra)

IMPERATORI] CAESARI DIVI FfILIO] AVGVSTO PONTIFICI

MAXIMO CO[N]S[VLI] XII TR1BVNIC[IA] POTESTfATE] XX ET

LIVIAE CAESARIS AVGVSTI (seti, uxori).

b(destra)

M[ARCO] AGRIPPAE L[VCII] F[ILIO] CO[N]SIVLI] TERTIVM]

IMBERATORI] (!)TRIBVNIC[IA]

POTESTATE] VI ET

IVLIAE

CAESARIS AVGVSTI FILIAEl

di seguito, da a a b

MAZAEVS ET M1TIHRIDATES PATRONIS

La versione greca, molto più abbreviata, recitava, nel centro:

Mo£|ato]s xaì Mi0Qi8car)s [toìs] Jtà[T]gcooi xaì xa> Srj[[*cp]

I due dedicanti, Mazeo e Mitridate, due orientali che V onomastica rivela di nascita non libera, hanno inteso offrire un omaggio ai loro pa­troni.

Dei due, Mitridate è noto come liberto di Agrippa in un'altra iscri­zione; non si esclude che anche Mazeo fosse appartenuto alla medesima famijia, ovvero a quella di Augusto.

In realtà il nome del primo compare, sull'attico, a destra, dove sono menzionati Agrippa e Giulia; quello del secondo, a sinistra, dove invece si citano Augusto e Livia.

L'iscrizione è facilmente databile agli anni 4-3 a.C, per le cariche che vi sono ricordate.

Agrippa, infatti, che, come apprendiamo da Seneca (Controv., 11.4.13), non ha mai portato il suo gentilizio Vipsanius, per non ostentare l'estrazione plebea, fu nominato console per la terza volta nel 27 a.C. ri­vestendo i fasci insieme ad Augusto; ottenne nel 13 a.C. la sesta trìbunicia potestas, morendo di malattia l'anno seguente in Campania, dopo essere tornato dalla provincia d'Asia, che aveva governato per dieci anni.

Augusto ottenne il pontificato massimo («Pontifex Maximus) nel 12 a.C; fu console per la dodicesima volta nell' anno 5 a.C. e solo nel 2 a.C. rivestì di nuovo la stessa carica per la tredicesima volta. Conseguì la trì­bunicia potestas vigesima nel 4 a.C, proseguendo con la ventunesima l'anno seguente.

Non sembrano, quindi, sussistere dubbi circa la cronologia.

Più difficile appare, invece, individuare la motivazione della dedica, che cadrebbe a molti anni di distanza dalla morte di Agrippa, il fedele luogotenente, consigliere, amico e genero di Augusto, che il princeps pre­dilesse ad un punto tale da considerarlo uno della sua famiglia accoglien­done le spoglie mortali nel proprio mausoleo, fatto erigere nel Campo Marzio {Campus Martius) nel «centro storico» a Roma.

Nella celebrazione, tuttavia, Augusto ed Agrippa non sono soli, bensì ciascuno di essi risulta in coppia con la donna che in quel momento si trovava ad essere la loro sposa. Ad Augusto, quindi, si accompagna Livia, cui egli si unì in terze nozze e che adottò in punto di morte, nel 14 d.C, determinandone la trasformazione del nome in Iulia Augusta. Ad Agrippa, anche lui in terze nozze, si unisce lulia, la figlia di Augusto, che costui poi rinnegò e fece morire in esilio nell'isola di Pantateria (ITavòa-TEQia nella costa campana, odierna Ventotene).

La presenza delle due donne, esplicitata in veste ufficiale ed asso­ciata a quella dei rispettivi coniugi, potrebbe allora rendere chiara l'in­tenzione dei due dedicanti di rendere omaggio non solo al potere del re­gnante, ma anche alla sua dinastia, la lulia, iniziatrice di una nuova epoca.

Tale ipotesi sembrerebbe avvalorata dal ritrovamento di una base di statua, certamente appartenuta al complesso figurativo del jroójruXov me­ridionale, su cui era incisa la dedica L[ucio] Caesari Augusti ffilioj. Quasi certamente doveva esisterne anche un'altra, gemella (non trovata fi­nora), per il fratello, Caius: figli di Agrippa e di Giulia, i due fanciulli, sfortunatamente morti entrambi in giovanissima età, avrebbero dovuto costituire, nei disegni di Augusto, l'eredità al suo principato, toccata poi, per forza di cose, a Tiberio.

Mazeo e Mitridate si rivolgono agli onorati come ai propri patroni.

In realtà, si può essere sicuri di un rapporto patrono/liberto solo nel caso di Agrippa e Mitridate. Nulla si sa di Mazeo. Ma si può essere tran­quilli di non allontanarsi troppo dal vero, affermando che, probabil­mente, esisteva, da parte di entrambi i personaggi, la volontà di far rile­vare i diversi aspetti che il rapporto di patronato comportava. Innanzi­tutto quello della protezione. Ma non solo. 11 liberto, che avesse conse­guito la libertà, rimaneva in obbligo verso il proprio ex padrone, di cui continuava a curare gli interessi, incrementandone i guadagni. Tale può essere stato il rapporto di Mitridate con Agrippa, nei lunghi anni che quest'ultimo dedicò al governo della provincia d'Asia, di cui Efeso era metropoli. Forse Mitridate, e con lui Mazeo, si saranno distinti in opera­zioni commerciali e finanziarie, che avranno aumentato il prestigio e le ricchezze del proprio patrono. Ma poiché costui rappresentava nella città gli interessi pubblici del princeps, era come se il liberto, operando a fa­vore del suo ex padrone, realizzasse vantaggi, in termini se non altro di credibilità politica, del padrone che stava sopra a quello, pure esso suo patrono, quindi, cioè Augusto.

Patroni sono quindi, per Mazeo e Mitridate, Augusto, Agrippa e tutta la famiglia, non solo perché l'ingresso di Agrippa nella gens lulia in­tegrava anch'essi tra i suoi dipendenti, ma altresì perché la nuova strate­gia economica augustea li avrà avvantaggiati in operazioni dai risultati più che soddisfacenti per lo stato e per i loro patroni, oltre che per se stessi, come dimostra la costosa sontuosità del monumento, che essi vollero, in ringraziamento, in uno dei luoghi più in vista della città.

Questo è almeno il messaggio che il visitatore, o il residente stesso, poteva ricavare dall'iscrizione latina.

La versione greca si riferisce, invece, in forma estremamente com­pendiaria, sia ai patroni, per chiarire la motivazione dell'offerta, sia al popolo.

Tanto il bilinguismo, quanto le differenti caratteristiche dei resti (quello latino molto più esteso, anche se non completamente padroneg­giato nella lingua, come dimostra la grafia imb[erator] per imp[erator], carica che molto di rado, peraltro è riportata nelle iscrizioni di Agrippa), riflettono il diverso referente, cui i dedicanti tendono, in relazione al messaggio monumentale che intendono comunicare.

Per la popolazione greca era sufficiente sapere che veniva innalzata nella città una porta, elemento architettonico, di utilità urbanistica, e che questa era dedicata ai patroni, perché il demo (8fj[xo<;) ne potesse benefi­ciare.

Per quella latina, cioè per la classe dirigente romana e per l'elite lo­cale, era invece importante valutare che il monumento si configurava come supporto onorario-trionfale alle persone della casa imperiale.

Si tratta perciò di un atto di ossequio in linea con l'ideologia domi­nante e quindi di completa adesione al modello politico proposto, pro­motore di nuove forme sociali, liberate anche negli strati più umili, ma non per questo meno dinamici, della popolazione.

In conclusione, l'arco di Mazeo e Mitridate, configurandosi come l'espressione di particolare evergetismo, si presenta come un monumento complesso, nel quale si fondono diversi e contrastanti motivi.

Allo stesso modo in cui condizioni sociali indigene si uniscono ad aspirazioni di promozione sociale, che trovano ragioni di essere nel nuovo ordinamento augusteo, per il quale personaggi come Mazeo e Mi­tridate, intraprendenti e forse spregiudicati, diventano elementi preziosi nel processo di romanizzazione; così motivi tradizionalmente orientali, come il propylon (jiqójtuàov), si sposano ad altri dedotti dalla più stretta tradizione trionfale romana.

E se il testo latino cerca consensi tra i maggiorenti della città, quello greco rassicura la popolazione circa l'utilità pratica dell'edificio nel con­testo cittadino, allo stesso modo in cui la porta rivela esternamente il suo carattere ufficiale di facciata, mentre internamente si anima in mossi contrasti chiaroscurali, riflesso di quelle spinte più profonde, che ambi­ziosamente tendono ad una scalata sociale, impensabile prima dell'età augustea, ma ora addirittura incoraggiata, perché funzionale alle nuove forme di potere.

3. Il culto della gens Iulia ad Efeso.

Rimarrebbe da chiedersi se, ed in quale misura, tale messaggio costi­tuisse una novità per la metropoli microasiatica.

Ma il culto della gens Iulia negli anni in cui fu costruita la porta, sembra fosse stato qui già ampiamente diffuso.

Si è sopra osservato che il tiqótwXov meridionale dell'àyogà com­merciale si inserisce nel programma di un nuovo piano regolatore, desti­nato allo sviluppo delle infrastrutture civili, sviluppatosi nei primi anni dell'età augustea.

E in quegli anni che si compie l'edificazione di un complesso di edi­fici pubblici quali il pritaneo (itooirraveiov) (flg. 1, n. 61), il bouleuterion (fiovkevxr\Qiov) (n. 63), l'àyogct civile (n. 56), la basilica (pacrdiKii) (n. 64) ed il santuario (àyiaorfJQiov), adiacente al pritaneo (n. 62 cfr. fig. 5).

Quest'ultimo suscita interesse particolare ed è stato fatto oggetto di studi più recenti, a seguito degli scavi che in tutta l'area della città sono condotti da diversi anni e a più riprese dall'Istituto Archeologico au­striaco.

Si tratta di un recinto sacro (réuevo?) porticato, all'interno del quale, sopra un podio in comune, sopraelevato di alcuni gradini, si er­gono due vcuaxoi (diminutivo di vaós) prostili gemelli, databili agli ul­timi anni dell'età repubblicana, per via dello stile dei capitelli ionici, a volute ricoperte da foglie di acanto.

Risultata evidente la destinazione sacra, si ipotizzò in un primo mo­mento un altare di stato. Se non che la costruzione spiccatamente italica del podio, riconnessa ad una notizia di Cassio Dione (LI. 20.6), secondo cui nel 29 a.C. Ottaviano, giunto per mare ad Efeso, vi costruì un santua­rio alla Dea Roma ed al Divus Iulius, ha orientato diversamente le opi­nioni in proposito, che ora tendono ad identificare i resti del recinto sacro con i templi indicati dallo storico greco.

Sembra in realtà plausibile collegare all'evento del 29 a.C. un san­tuario tipicamente romano-occidentale, eretto in posizione preminente accanto al pritaneo e destinato al culto comune dei cittadini romani, che risiedevano o commerciavano nella provincia di Asia.

Altrettanto sollecitante si rivela la basilica adiacente al lato nord dell'agorà civile.

Questa si compone di tre navate, rialzate di alcuni gradini rispetto al livello della piazza. Contrariamente alla maggior parte delle basiliche ita­liche essa era aperta su uno dei lati lunghi, quello verso la piazza, dove affacciava mediante un colonnato ionico, il cui intercolumnio si presen­tava più stretto di quello delle navate interne (che erano su due piani, so­pravanzando perciò il laterale) contrassegnato da caratteristici capitelli ionici con doppia testa di toro. Il lato posteriore era chiuso da un muro.

Sui due lati corti aderivano due «chalcidica», cioè due ingressi monu­mentali porticati e coperti, esattamente come richiesto dal trattato di Vi-truvio (V.1.4).

Tra i due suddetti «chalcidica», rilevante per ciò che a noi interessa si è mostrato quello orientale. Qui infatti, sigillati dal pavimento di una costruzione del VI secolo che s'impiantò successivamente alla rovina di tutto l'edificio, sono ritornati alla luce diversi frammenti di statue. Si è potuto così ricomporre tanto una testa-ritratto di Augusto con corona di quercia, quanto due statue colossali sedute di Augusto e di Livia.

È probabile che la testa-ritratto sia da riferire ad una dedica ad Au­gusto in lingua greca rinvenuta negli impianti termali adiacenti alla sud­detta basilica nel suo lato orientale (fig. 1, n. 65).

Esistono buone probabilità per pensare che tali statue fossero state originariamente sistemate nel chalcidicum orientale. Qui inoltre si rin­vennero altre due basi iscritte, che il testo in lingua greca attribuisce ai due benefattori, presumibili finanziatori della basilica: C. Sestilio Collio ed Ofilia Bassa. Da un'altra iscrizione bilingue, che correva all'esterno del lato meridionale della basilica, si apprende che gli stessi, cittadini ro­mani (cives romani), si assunsero l'onere della edificazione in onore di Diana Efesia, di Augusto e Tiberio, della città di Efeso. Gli anni sono quelli compresi tra ITI e il 14 d.C. quando, prima della morte dello stesso Augusto, avvenuta nel 14, si era già ufficializzata l'eredità tiberiana all'impero.

Anche in questo caso quindi, come in quello della porta di Mazeo e Mitridate, un atto di evergetismo privato, questa volta di cives, onora la scelta dinastica dell'Augustus!

 


 


 
 
 
 
 
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