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Revista Antonianum
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Foto De Luigi Paolo , Miscellanea: Matrimonio rato e non consumato. Le difficoltà di trattazione di un caso di "Defectus humani mosi in actu consummandi matrimonium", ex cann. 1061 § 1, 1699 § 2 C.J.C., in Antonianum, 76/3 (2001) p. 561-569 .

Il delicatissimo tema della “violenza” nel rapporto di coppia emerge in tutta la sua crudezza nella fattispecie esposta. Il diritto della Chiesa, sulle orme della filosofia ed in base agli enunciati dell’antropologia cristiana non può non farsene carico nella retta amministrazione della giustizia.

1. L’oratrice S. ed il convenuto G. si conobbero circa quattro anni prima delle nozze. L’uomo proveniva da una diversa estrazione sociale e caratteriale rispetto alla donna, di famiglia cattolica e rigidamente osservante.

Durante il fidanzamento – non gradito ai genitori della ragazza – non intercorsero intimità, limitandosi i due alle comuni effusioni in uso tra fidanzati. Del resto l’uomo non manifestò mai questo tipo di desiderio, essendo tra l’altro uso a trascorrere quasi interamente il suo tempo tra la palestra ed il bar, frequentando numerose amicizie, senza pensare ad un seppur minimo coinvolgimento della donna, la quale, da parte sua, fu ben felice di potersi mantenere ligia alla dottrina predicata dalla Chiesa su tale argomento.

2. Il matrimonio fu proposto dalla stessa oratrice, che venne man mano intavolando il discorso su di un possibile futuro comune; l’uomo non commentò nè a favore nè contro. Cosicchè le nozze furono celebrate il (..), presso la Parrocchia di (..).

La convivenza matrimoniale si protrasse per circa due anni, ed il motivo della rottura del matrimonio ebbe il suo tristissimo riscontro nelle ripetute violenze, sistematicamente operate dal convenuto sulla donna. Ella purtroppo, fin dal primo rapporto intimo, si rese conto della vera personalità del convenuto che fino a quel momento, a differenza del modo con cui solitamente era uso trattare con gli altri, si era comportato nei suoi riguardi con una certa “correttezza”. L’oratrice era solitamente presa con violenza dal convenuto, il quale, avvalendosi della sua esperienza mutuata dalla pratica delle arti marziali, la costringeva brutalmente al rapporto, allargandole violentemente le gambe e colpendola con colpi ben assestati sulle parti intime del corpo, in modo che non si riscontrassero echimosi. Nelle Motivazioni delle Sentenze emesse rispettivamente dal Pretore di (..) e dalla Corte D’Appello di (..) si legge anche che tali violenze si susseguivano, assalendo l’uomo di sorpresa la donna dopo aver fatto finta di uscire, per poi “rassicurarla” dicendole che non era accaduto nulla.

Logico che in un anno la salute dell’oratrice cominciasse a vacillare: psichicamente provata da tutto ciò, non riusciva più a dormire, era praticamente terrorizzata, ed alla fine sopraggiunse anche l’anoressia.

3. L’oratrice trovò alfine il coraggio di confidarsi con il suo medico, con il parroco e con i propri genitori. Interruppe la coabitazione, sporgendo denuncia presso la competente autorità giudiziaria. Veniva così dato corso ad un procedimento penale contro il convenuto, il quale si concludeva con una doppia pronuncia, di condanna, rispettivamente emessa dal Pretore di (..) e dai Giudici della Corte d’Appello di (..).

Contestualmente si introdusse il contenzioso civile per via giudiziale, tramite Ricorso con addebito poi commutato, a mo’di transazione, in separazione consensuale, cui seguì nei termini previsti dalla legislazione italiana, l’emanazione della Sentenza di divorzio.

La donna nel frattempo aveva conosciuto un bravo giovane, si era legata a lui formando una vera famiglia cristiana allietata da figli. Quando le sue ancora precarie condizioni di salute glielo permisero, attraverso il Tribunale Ecclesiastico della sua diocesi presentò supplice libello al Sommo Pontefice domandando la grazia della dispensa per matrimonio “Ratum sed non consummatum per humanum modum”, allegando la ricca documentazione offerta dal contenzioso civile oltrechè dalle due sentenze penali di condanna che definitivamente stabilivano la colpevolezza del convenuto per quanto ascrittogli, condannandolo oltre che ad una pena detentiva, anche al risarcimento dei danni ed alla liquidazione di una provvisionale, immediatamente esecutiva, dell’ordine di diversi milioni di Lire.

***

Coniecturae in jure et in facto, ad veritatem inquirendam, magis fovendam.

4. L’argomento relativo al matrimonio rato e non consumato già in precedenza è stato fatto oggetto di trattazione da parte dell’autore del presente studio, il quale ha descritto l’istituto in questione nel suo profilo generale[1]. Il caso in oggetto, invece, offre spazio a quell’ulteriore approfondimento tematico che verte sui c.d. “casi difficili”.

Per quanto riguarda l’importanza processuale dell’Argomento fisico relativo a questa fattispecie, nonchè il valore da attribuirsi a questo tipo di atti:

- Il Codice di Diritto Canonico - can. 125 § 1 – considera nullo qualsiasi atto posto con violenza dall’esterno: "..ex vi ab extrinseco personae illata, cui ipsa nequaquam resistere potuit".

- Il can. 1061 definisce l’atto coniugale nei suoi elementi giuridici; atto per il quale “..coniuges fiunt una caro”. Infatti, oltre all’indicazione delle note specifiche, esso afferma che l’atto deve avvenire “humano modo”. E’ questa una precisazione d’ordine psicologico di recente introduzione, derivata da un enunciato conciliare[1], e ripresa dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nell’Esortazione "Familiaris consortio"[2].

- Le Litterae Circulares de Processu super matrimonio rato et non consummato del 20 Dicembre 1986 ne precisano ulteriormente il significato: “Ad habendam consummationem matrimonii oportet ut actus sit humanus ex utraque parte, sed sufficit ut sit virtualiter volontarius, dummodo non violenter exigitus”[3], dove quella particella “dummodo” la dice lunga circa la “mens legislatoris” per la validità dell’atto[4].

5. Dunque, un primo problema sicuramente di non lieve entità che tocca questa fattispecie è senza dubbio dato dall’estrema difficoltà della stessa, in quanto la causa “tocca” anche elementi di diritto e di procedura penale italiani; non sempre di facile cognizione agli organi ecclesiastici preposti al giudizio. Logica quindi ne appare la deduzione per cui rimane più che opportuno che le parti (e soprattutto il Tribunale) debbano servirsi dell’opera di un «esperto»[5].

Circa poi la non lieve difficoltà motivata proprio dal capo cui fa riferimento l’epigrafata procedura: “Defectus humani modi in actu consummandi matrimonium”[1], nello stendere la presente nota non ci si può non avvalere del valido contributo dato anche e soprattutto dai documenti e dalla dottrina antecedenti la promulgazione dell’attuale Codice di Diritto Canonico, nonchè dal più recente documento della Congregazione per il Culto Divino e Disciplina dei Sacramenti.

Ed infatti la dottrina, proprio a causa della novità introdotta nella sopracitata fattispecie, non si è ancora dimostrata unanimemente concorde nel considerare l’“umano modo” compreso nel novero dei c.d. “casi difficili[2], cosa che invece avrebbe potuto più facilmente verificarsi se, ad es., sotto il profilo procedurale / probatorio, fossero ricorse quelle “speciales difficultates” di cui parlano il can. 1699 § 2, C.J.C., il n. I sub d, della Istruzione Dispensationis matrimonii del 7 Marzo 1972, e l’Art. 2 delle sopracitate Litterae Circulares[3].

Invece nella fattispecie e, successivamente, durante la fase istruttoria del caso prospettato si potè constatare:

I) la presenza nello stesso territorio della Diocesi sia delle parti sia dei testimoni, i quali inoltre risultarono tutti ben forniti d’attestato di credibilità[1];

II) l’intervento effettuatosi durante l’istruttoria da parte del medico di fiducia, nominato dalla Rev.ma Curia, il quale ebbe un ruolo molto attivo durante l’interrogatorio della parte oratrice, contribuendo a chiarire diversi aspetti medici legati alla vicenda, scientificamente confermando le dichiarazioni della donna, e rassicurando oltremodo il Tribunale[2].

III) l’importante dato probatorio, offerto dalla diagnosi medicale, precedentemente comunicata all’oratrice dal suo medico curante, “tempore non suspecto”, cioè quand’ella non si era ancora separata dal convenuto; diagnosi poi riconfermata dallo stesso medico (anch’egli noto alla Rev.ma Curia) in sede di deposizione[3].

6. Ma la vera “novità” su cui si dovette “misurare” l’organo collegiale ecclesiastico preposto a questo tipo di giudizi fu la presentazione – e conseguente allegazione agli atti – di due Sentenze penali emesse da Tribunali italiani e già passate in giudicato, le quali, oltre che a decretare la condanna del convenuto per atti di violenza – perlopiù finalizzati alla violenza sessuale, come si legge nelle motivazioni delle due Sentenze – sistematicamente perpetrati sulla persona dell’oratrice, in entrambi i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento, respinsero le opposizioni presentate da parte dell’avvocato dello stesso convenuto[4].

L’ineluttabile evidenza probatoria offerta dai predetti documenti (argomento fisico), non disgiunta da una più che esaustiva prova testimoniale (argomento morale), ha così reso inutile, e quindi permesso di evitare, la sottoposizione della donna oratrice alla “corporalis inspectio”[5].

***

7. Un secondo tipo di problema è dato dall’importanza processuale da conferire all’Argomento morale, nonchè dalla opportunità che la causa,

piuttosto che con questa procedura, dovesse essere giudizialmente trattata; a ciò rispondono una serie di enunciati giuridici e dottrinali:

- Il can. 1536 § 3, che definisce la valenza da attribuirsi alle confessioni e dichiarazioni delle parti "..cum ceteris causae adiunctis", aggiungendo che ad esse non può attribuirsi pieno valore "..nisi alia accedant elementa quae eas omnino corroborent".

- L’Instruzione Dispensationis Matrimonii, ad n. II, sub b, per la quale "Obliviscendum non erit in huiusmodi causis argumentum morale permagni ponderis esse ad certitudinem moralem de matrimonii inconsummatione adipiscendam".

- La dottrina, che in tema di giusto giudizio afferma che ci si deve affidare alla “certezza morale”.

- Una bellissima citazione presa da un passo di S. Tommaso, alla cui criteriologia, modus procedendi (et judicandi) - del resto - lo stesso Codice (cf. can. 252 § 3) vuole siano informati i sacerdoti: “Attamen certitudo non est similiter quaerenda in omni materia. In actibus humanis, super quibus constituuntur judicia et exiguntur testimonia, non potest haberi certitudo demonstrativa, eo quod sunt circa contingentia et variabilia, et ideo sufficit probabilis certitudo, quae ut in pluribus veritatem attingat, etsi in paucioribus a varietate deficit”[1].

- Ne mens insuper excidat monitum PP. Pii XII, per il quale “Talvolta la certezza morale non risulta se non da una quantità di indizi e di prove che, presi singolarmente, non valgono a fondare una vera certezza, e soltanto nel loro insieme non lasciano più scorgere per un uomo di sano giudizio alcun ragionevole dubbio”[2].

- Infine la stessa Giurisprudenza Rotale – sulla scia della sempre maggior importanza attribuita ai documenti pubblici civili da parte del Codice di Diritto Canonico[3] - si dimostra assai sensibile e fa sue le decisioni - ovviamente se conformi allo spirito del Diritto della Chiesa – emesse dai Tribunali Civili. Ne è un esempio il Votum P.J. die 16 Decembris 1999 in una c. Caberletti, Romana, Jurium. In detto Votum - fatti comunque salvi i diritti delle parti -  ci si esprime verso una soluzione di conformità da attuarsi da parte dell’Apostolico Tribunale della Rota Romana, dopo aver esaminato “duae decisiones conformes, latae a Tribunali Civili”[1].

- Sull’opportunità della trattazione poi, secondo la procedura per l’ottenimento della dispensa, oppure attraverso l’ordinario esame giudiziale, rispondono innanzi tutto i cann. 212 § 2 e 213[2], che definiscono il diritto dei fedeli verso i loro Pastori; nonchè i cann. 1674 - 1675[3], sull’opportunità della verifica della sussistenza o meno della validità del vincolo; verifica che comunque nulla vieta possa esperirsi anche successivamente.

- L’Istruzione Dispensationis matrimonii, che condiziona l’accoglimento della domanda al solido fondamento della stessa (ad n. I, sub c), risolutivamente sottoponendola alla particella “dummodo” (ad n. I, sub e).

- Le Litterae Circulares, ad Art. 3, che confermano tali disposizioni.

- Le Litterae Circulares al disposto dell’Art. 7, il quale, regolando il passaggio dal processo giudiziario al procedimento amministrativo nel caso che dall’istruttoria emerga una sospetta inconsumazione - prescindendo da qualsiasi tipologia di capo accusato – dispone: “..quodcumque fuerit caput..tribunal, praeteriendo an invaliditas matrimonii evinci possit vel non, rem cum partibus communicat”.

- Il Breve Commentarium, ad n. 4, sub e[4].

8. Dunque una ulteriore problematica sicuramente risiede nell’opportunità o meno di adire alla procedura atta all’ottenimento del rescritto grazioso di dispensa in vece di quella giudiziale, ai fini della sentenza dichiarativa di nullità[1].

Nel caso presentato sembrò più opportuno – juris servata ratione – adire alla prima via, e per la seguente serie di motivi:

 A)  d’ordine pastorale, in quanto, pur ravvisando un certo dubbio circa possibili cause di nullità del matrimonio, tuttavia, ascoltando la parte oratrice, si ritenne più opportuno procedere all’istruzione di tale procedimento, anche e soprattutto in ossequio a quanto stabilito dai cann. 212 § 2 e 213 C.J.C., ed in ragione del manifesto e solido giuridico fondamento su cui si poggiava la domanda di grazia[2];

B) d’ordine processuale, in quanto, oltre che alla financo esagerata quantità di capi cui poteva altresì farsi riferimento istruendo una eventuale causa di nullità (incapacità, dolo, simulazione totale contro il matrimonio e contro la stessa sacramentalità del vincolo, esclusione degli elementi o delle proprietà essenziali), esisteva - dati anche i termini assunti dalla vicenda in altre sedi di giustizia - un più che valido motivo per presumere che la parte convenuta si sarebbe resa indisponibile a sottoporsi ad eventuali perizie, oppure più semplicemente a presentarsi, od addurre testi, dovendosi recare presso il competente Tribunale Regionale Ecclesiastico. Infatti, dopo ricerche e ripetuti inviti, il convenuto limitò la sua collaborazione al presentarsi una sola volta presso il Tribunale Ecclesiastico Diocesano, evitando – pur richiesto – di addurre testi di parte. Richiamato poi per ordine della Congregazione, si rese contumace.

D’altronde la “vexata quaestio” circa l’opportunità della previa verifica della sussistenza o meno della validità del vincolo (verifica che comunque – come già ricordato – nulla vieta possa esperirsi anche successivamente [cf. cann. 1674 - 1675]) pare oggi superata[3] dal su richiamato disposto dell’Art. 7 delle citate Litterae Circulares. che regolando il passaggio dal processo giudiziario al procedimento amministrativo – prescindono da qualsiasi tipologia di capo accusato[4].

C)  d’ordine pratico, in quanto era oramai inesistente qualsiasi tipo di legame tra le parti: prova ne sia che, all’atto dell’apertura del procedimento, essendo pendente ancora una separazione e divorzio non consensuale ma di tipo giudiziale, alla fine dell’istruttoria l’oratrice consegnò al Tribunale una lettera con cui il legale civile della stessa, su mandato di quest’ultima, preferì rinunciare alle pur giuste pretese di recupero di quanto a lei spettante per i giudizi penali e per le obbligazioni di carattere civile, pur di conchiudere nel minor tempo possibile quella dolorosa parentesi della sua vita[1];

D) infine, la certezza circa l’esistenza della giusta e proporzionata causa, soprattutto in vista della effettiva direzione del provvedimento, il quale – natura sua – rimane precipuamente finalizzato al raggiungimento dell’interesse generale della Chiesa (bonum publicum), “..anche se concessa per il soddisfacimento di esigenze private”[2], fu irrefragabilmente dimostrata – nei suoi diversi aspetti - da tutto quello che si raccolse negli atti. Questa, unita alla contestuale e più che verificata – giudizialmente e stragiudizialmente – assenza di scandalo[3], ha definitivamente contribuito a rendere maggiormente consigliabile ed opportuna la via amministrativa.

 

 
 
 

 

 
 
 


 
 
 
 
 
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