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Presentazione del volume B. IOANNIS DUNS SCOTI, Ordinatio, liber III, di-stinctiones 1-17, Opera Omnia, tom. IX, studio et cura COMMISSIONIS SCOTISTICAE, Civitas Vaticana 2006.

 
 
 
Foto Serafini Marcella , Presentazione del volume B. IOANNIS DUNS SCOTI, Ordinatio, liber III, di-stinctiones 1-17, Opera Omnia, tom. IX, studio et cura COMMISSIONIS SCOTISTICAE, Civitas Vaticana 2006., in Antonianum, 81/3 (2006) p. 596-601 .

Il giorno 26 maggio 2006 si è tenuta, presso la Pontificia Università Antonianum, la Presentazione del IX volume dell’Edizione Critica dell’Opera omnia di Giovanni Duns Scoto: il terzo libro dell’Ordinatio, distinctiones 1-17. Il volume era particolarmente atteso dagli studiosi, in quanto raccoglie le tesi di Scoto su temi che sono i cardini della teologia: il mistero dell’Incarnazione e la preservazione della Vergine Maria dal peccato originale.

L’incontro, organizzato dalla Facoltà di Filosofia dell’Università e dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani, è stato presieduto dal Decano della Facoltà di Filosofia, prof. Stéphane Oppes e con gli interventi di fr. José Rodriguez Carballo – Gran Cancelliere dell’Università e Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori– , Orlando Todisco, noto studioso del pensiero di Duns Scoto, che ha presentato i contenuti di questo volume IX dell’Opera Omnia; Barnaba Hechich, presidente della Commissione Scotistica, che si è soffermato sull’edizione del volume.

L’intervento del Ministro generale ha tentato di ripercorrere a grandi linee l’itinerario che ha condotto all’Edizione critica delle opere di Scoto, e a questo volume in particolare, attraverso le due tappe più significative: l’edizione curata da Luca Wadding nel 1639 e quella di Vivès, edita tra il 1891 e il 1895. Questa continua attenzione sta a significare che il pensiero di Duns Scoto è sempre stato un punto di riferimento essenziale per il mondo francescano, in particolare nella formazione teologica. L’idea di un’Edizione critica inizia a concretizzarsi a partire da due figure decisive, ossia E. Longpré e C. Balic, e dalla costituzione di una apposita Commissione Scotistica; tale lavoro ha visto un riconoscimento esplicito nella Lettera Apostolica Alma parens di Paolo VI, del 14 luglio 1966.

Orlando Todisco ha contribuito a individuare la chiave ermeneutica per penetrare il III libro dell’Ordinatio; un tentativo di entrare nel cuore del pensiero scotista. La peculiarità del libro III, ha esordito lo studioso, sembra consistere nel tentativo di ‘sorprendere’ Dio mentre in sé pensa, progetta l’altro da sé; è la chiave di lettura per penetrare la dignità e la bellezza del finito. Nel suo procedimento argomentativo, il Dottor Sottile critica rigorosamente l’atteggiamento pagano, che vedeva Dio come una sorgente che trabocca necessariamente: una lettura mortificante, che non coglie la profondità del mistero della creazione. Contemplando Dio, si sofferma anzitutto sul mistero trinitario (Dio ama se stesso) per coglierne poi l’apertura fuori di sé: è un amore che cerca spazio nella libertà creativa. Scoto si interroga su tale amore e cerca di penetrarne la natura: è un amore castus, non dominativo, ma oblativo, che si esprime creando spazi di libertà. L’opera che meglio ne esprime l’indole è il Verbo Incarnato (d.7, q.3). Questa ultima affermazione, ad avviso di Todisco, non solo costituisce la chiave interpretativa di Ordinatio III, ma offre anche le coordinate per rileggere e interpretare i tratti fondamentali dell’ontologia scotista, in particolare il rapporto tra finito e infinito, tempo ed eternità. L’idea dell’Incarnazione suscita stupore e sbigottimento nella ragione teoretica, che procede secondo la logica più serrata. Perciò Scoto inizia la propria riflessione indagando anzitutto ‘de possibilitate incarnationis’, se sia possibile cioè l’incarnazione del Verbo, e con ciò l’incontro tra eterno e tempo, Dio e uomo. Si affaccia alla penetrazione del mistero più alto con tremore intellettuale, con atteggiamento contemplativo e riverente. In tale contesto, l’affermazione più intensa è contenuta in q.3, n.64: «nec est verisimile tam summum Bonum in entibus esse tantum occasionatum propter minus bonum solum». È l’esaltazione del summum Bonum in entibus, garanzia di apertura del finito all’infinito e del connubio tra Dio e il mondo, sorgente gratuita di calore e luce; a partire dalla libertà divina, che sta alla base di tale capolavoro, Scoto vuole ripensare l’essere e guardare le creature in quanto volute in Lui e per Lui. Il summum Bonum è infatti il progetto che Dio pensa fuori di sé, quale possibilità di ‘aggancio’ tra tempo ed eternità, garanzia di comunione tra finito e infinito. A questo punto, la ragione si arresta stupita, tace ogni pretesa razionalistica di porre la logica a fondamento del reale; è la condizione da difendere per impedire che il reale venga assolutizzato, chiudendosi in se stesso e respingendo come estraneo ogni altro influsso. Espressione dell’amore di Dio fuori di sé, l’essere è in quanto amato: l’essere è amore, partecipazione gratuita di sé fuori di sé; poiché l’amore è originario, ciò che è fuori del circolo trinitario è contingente, viene all’essere in quanto voluto o amato e solo venendo all’essere diventa vero, cioè assume forma specifica. Il tempo ha dunque la sua origine nell’eterno di Dio, nell’amore gratuito di Dio; l’ontologia è fondata sulla gratuità dell’essere e si esprime nella fenomenologia dell’amore gratuito, ‘senza perché’, ma proprio per questo pieno di senso.

Secondo l’interpretazione di Todisco, questa prospettiva di comunione tra eterno e tempo, quale esito dell’agire di Dio fuori del circolo trinitario, consente di far fronte a una serie di perplessità che alcuni teologi hanno avanzato nei riguardi della coniugazione, ritenuta problematica, tra predestinazione assoluta e storicità di Cristo, ovvero tra assolutezza di Cristo e singolarità storica del suo riferimento. Tale posizione, presente in forme diverse nel corso dei secoli, mostra delle tracce anche nella teologia contemporanea; a tale proposito, l’autore riporta brani del giovane Joseph Ratzinger e di Luigi Giussani.

Nel tentativo di fornire la corretta interpretazione del pensiero di Scoto sull’argomento, lo studioso fa riferimento alla “potenza obbedienziale”, che individua come sfondo della relazione tra finito e infinito; si tratta di quell’atteggiamento di piena sottomissione all’agente soprannaturale, che dell’obbediente può fare ciò che vuole questa problematica. Tale sottomissione deriva dalla dipendenza ontologica del finito dall’infinito, una dipendenza che non umilia, ma esalta e porta a pienezza il finito stesso. È il riconoscimento ontologico che si è perché qualcuno, che poteva non volerci, ci ha voluto e ci vuole; perciò non è alienazione, ma consapevolezza della gratuità dell’essere e impegno perché diventi luogo di amore creativo. Attraverso l’amore, il tempo acquista significato e pienezza, ogni presente supera la dimensione profana, puramente cronologica, e diventa tempo messianico, esigenza di compimento. Questa trasformazione, tuttavia, non può avvenire quando si è convinti che la storia sia dotata di un suo principio che si sviluppa in totale autonomia, la razionalità, che rifiuta tutto ciò che non rientra nella sua logica. Perciò, coloro che ritengono che tale concezione lasci in ombra la storicità dell’evento-Cristo e della sua resurrezione, muovono da premesse di carattere esclusivamente razionalistico, secondo cui il tempo profano è solo, e resta sempre, tempo profano. Il senso di questa tesi è che con la predestinazione assoluta di Cristo alla gloria si perde, o passa in secondo piano, la storicità dell’Incarnazione; fuori di questa concretezza storica, però, l’evento redentivo si ridurrebbe  a ‘idea’ della salvezza e del Salvatore. Al contrario, solo l’incontro con Cristo salva; fuori della dimensione dell’evento si avrebbe la perdita del senso dell’avvenimento, ridotto a un’idea, che è la presunzione gnostica, da sempre presente nell’Occidente. Si tratta allora di verificare se la predestinazione di Cristo, sostenuta da Scoto, conduca davvero a tale epilogo gnostico, cioè allo smarrimento della fattualità dell’evento Cristo; in altre parole, se la ‘verità di fatto’ – ed è questo l’equivoco denunciato – , l’Incarnazione del Verbo diventi, attraverso l’accentuazione della predestinazione assoluta, ‘verità di ragione’, sottraendosi alla contingenza propria del fatto. Individuata la difficoltà e l’obiezione avanzata alla tesi scotista, Todisco trae dal pensiero di Scoto anche gli strumenti per la risposta: per il Maestro francescano non si danno di per sé ‘verità di ragione’, perché tutto ciò che è fuori del mistero trinitario è contingente, e dunque è dono libero; il mondo è epifania della bontà di Dio. In tale contesto, le ‘verità di ragione’, o necessarie, si danno soltanto all’interno delle ‘verità di fatto’, o anche all’interno di un sistema: il sistema è contingente, ciò che ha luogo al suo interno può anche essere necessario. Dunque, come la creazione del mondo, anche l’Incarnazione poteva non aver luogo, essendo entrambe espressioni della volontà libera e liberale di Dio. Solo a partire da tale premessa, che è la libertà e quindi la gratuità, è possibile chiamare in causa la ragione perché renda conto di ciò che è accaduto e ne esprima l’indole, evidenziando il carico di razionalità o di ragionevolezza che spetta a ciò che è accaduto. La bontà non è contro la verità, ma l’esige a suo rivestimento. In quest’ottica, la predestinazione di Cristo alla gloria, anteriore a tutta la vicenda umana, è ragionevole, così come la Concezione Immacolata di Maria. La ragione, o anche la verità, è dunque la forma che la libertà assume allorché viene realizzata; la razionalità è la forma di un fatto, non la consumazione della fattualità del fatto; la fattualità del fatto rimane essenziale, ineliminabile. Non si danno verità di ragione, ma solo verità di fatto, cioè volute da chi poteva volere diversamente. Ciò non significa che ciò che è non sia stato voluto in modo razionale, ma che questa razionalità è solo la forma che ciò che Dio ha voluto, ha assunto nel tempo. Nel caso specifico, significa che il senso della predestinazione è mostrare che Cristo è la fonte del senso, e dunque cifra della libertà come liberazione. La predestinazione assoluta, perciò, non implica lo smarrimento del fatto storico, ma l’esplicitazione e l’esaltazione del suo significato. Al contrario, evidenziare la centralità del peccato e della riparazione, per garantire la storicità della redenzione e dell’Incarnazione, equivale a porre al primo posto l’Ordo Iustitiae e solo di seguito l’Ordo amoris; siamo al primato del vero, alla logica del rapporto tra causa ed effetto. Non è questo l’atteggiamento scotista: Scoto interpreta tutto ciò che è secondo l’Ordo amoris, di cui l’Ordo iustitiae è solo una modalità. La sua tesi è che l’operare di Dio non va agganciato a una causa, ma ciò non significa che non vi sia una ratio o che non abbia un senso: l’atteggiamento scotista è piuttosto un invito a recuperare la gratuità dell’essere, che è possibile solo a condizione che si ponga a fondamento la libertà, intesa come gratuità. Chiave del III libro è dunque la libertà divina, che suscita, come risposta, un atteggiamento di gratitudine e uno stile di vita: non si può essere e vivere da ‘asserviti’, ma solo nella libertà.

L’intervento di p. Barnaba Hechich, Presidente della Commissione Scotistica, ha offerto interessanti informazioni sull’edizione del volume e sul ruolo della Commissione stessa. La pubblicazione di questo volume si pone, metodologicamente parlando, in continuità con il parallelo libro III della Lectura pubblicato nel VII centenario della composizione. Il testo critico ottenuto è il risultato del confronto tra 8 manoscritti principali che i membri della Commissione, ciascuno secondo il proprio compito, hanno letto e confrontato, annotando le varianti. È l’ingrato compito cui si è costretti quando manca l’originale autografo e occorre risalire al testo genuino. In questa opera di ricostruzione, sono state di grande aiuto le norme generali sullo stile e sul modo di esprimersi di Scoto, diverso da quello dei suoi contemporanei. Lo studio delle citazioni e delle fonti, in particolare, aiuta a capire meglio il Dottor Sottile, individuando gli interlocutori privilegiati del suo pensiero e gli autori a cui fa riferimento. Le fonti vengono citate prevalentemente in forma anonima (sono state individuate più di 2000 citazioni); assiomi di autori passati vengono spesso utilizzati in modo implicito. Inoltre il Dottor Sottile, preoccupato dal procedere del proprio ragionare, talvolta trascura la chiarezza e la correttezza grammaticale, producendo discorsi lunghi, sillogismi dalle premesse poco chiare, soggetti o verbi sottintesi, anacoluti e variazioni grammaticali. Sono anche presenti parole appartenenti al volgare. La Commissione si è preoccupata di indicare queste irregolarità grammaticali e sintattiche in nota, facilitando gli studiosi. Obiettivo della Commissione infatti è sempre stato, e resta tuttora, quello di offrire un testo vivo da studiare, la cui lettura non sia resa più difficoltosa dalla grafia o dalle irregolarità nell’uso delle parole; suo compito specifico è quello di restituire il testo corretto, senza interpolazioni, mettendo in evidenza, citandole e indicandole in nota, le fonti. Un ruolo, perciò, essenziale e preliminare al lavoro dello studioso che ne interpreta e approfondisce i contenuti.

Al termine del proprio intervento, p. Barnaba non manca di evidenziare un problema, notevole e sempre più urgente, all’interno della Commissione Scotistica: la necessità che giovani studiosi intraprendano la strada della ricerca e della critica testuale, per offrire la loro disponibilità e collaborazione; rivolge perciò un sentito e accorato appello al Ministro generale, perché individui e indirizzi tali giovani. Per finire annuncia, per l’anno 2007, la pubblicazione del volume X, con le distinctiones successive, fino alla n. 40.



 
 
 
 
 
 
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