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Recensione: JOHANN MAIER, Le Scritture prima della Bibbia

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: JOHANN MAIER, Le Scritture prima della Bibbia , in Antonianum, 78/4 (2003) p. 712-713 .

Il volume che presentiamo è di una grande importanza, non solo per il calibro dell’Autore, giudaista di fama internazionale, ma soprattutto per la tematica svolta, a nostro parere di una rilevanza oggi imprescindibile nelle scienze bibliche. L’opera appartiene alla serie dei “supplementi” di quella meritoria collana di manuali d’introduzione alla Bibbia, che abbiamo avuto modo di recensire più volte in questa stessa rivista. La collana è nata in Spagna, ma il presente studio è stato tradotto dal tedesco e inserito lodevolmente nella serie dei “supplementi”, confermando ancora una volta il valore di tale impresa editoriale.

Se si vuole avere una prima idea della tematica del libro, sarà utile citare queste parole dalla premessa: «Questo saggio non intende, né può, sostituire una delle cosiddette introduzioni all’Antico Testamento…Vuole semplicemente tracciare un resoconto di ciò che s’intende quando si pensa ai libri biblici come a “sacra Scrittura” del giudaismo e alla testimonianza resa loro nelle fonti dell’età del secondo tempio… Perciò si prendono criticamente le distanze dai quei punti di vista e giudizi che, sulla base del modo cristiano e giudaico rabbinico di concepire quello che sarebbe stato il canone, giungono quasi automaticamente al presupposto, anacronistico, che esso esistesse anche in epoche precedenti». La comprensione di queste precisazioni ci farà entrare nel cuore della ricerca. Il presente studio non è quindi un’introduzione all’AT; il che vuol dire che non è la prospettiva di un tale trattato quella nella quale si situa M. A tutta prima può sembrare una precisazione dovuta a modestia intellettuale e in ogni caso ad un understatement del discorso che egli svilupperà. In realtà, come egli specifica più avanti, la diversità di prospettiva, più adeguata alla realtà storica e filologica dei testi biblici, mette in crisi una certa base assiomatica pregiudiziale su cui si fonda correntemente la ricerca veterotestamentaria. Tale base di partenza, intoccata da troppo tempo e intoccabile per molti studiosi, negli ultimi tempi è stata messa in discussione dalle tematiche dei simposi che i veterotestamentaristi dell’A.B.I hanno affrontato (cf. Ricerche Storico-Bibliche, 1999/1 e 2001/1, a mo’ d’esempio). Il libro di M. è un solido contributo a questo nuovo orientamento di ricerca. Tradizionalmente, quando si trattano testi biblici, li si considera come grandezze letterarie non molto differenti dalla strutturazione e collocazione che il canone sia giudaico che cristiano ha loro conferito molto tardi. Un esempio eclatante è il parlare invariabilmente di pentateuco e Torà come di due grandezze interscambiabili; si arriva addirittura a dire che il pentateuco ha ricevuto la sua forma canonica in epoca persiana. Lo studio continuato della letteratura qumranica, e della più vasta letteratura intertestamentaria, ha condotto oggi gli studiosi ad una visuale radicalmente differente, grazie anche a saggi come quello del M. Egli dimostra ampiamente nella sua monografia lo stato e la genesi dei testi, al di là del loro carattere “biblico”, all’epoca del giudaismo del secondo tempio, cioè dal VI sec. a.C. al 70 d.C. Estremamente interessante è la disamina che l’autore fa dello sfondo storico-sociale e politico su cui si staglia la distinzione tra una Torà “celata” e una Torà manifesta, la quale attinge, a seconda dei casi e dei bisogni o degli orientamenti di un particolare gruppo, alla prima, intesa come un non definito ma reale patrimonio rivelato a disposizione di pochi eletti, come Mosè. È questo stato di cose che fa emergere due dati di fatto conseguenti: 1) quest’ordine d’idee può essere all’origine della successiva convinzione rabbinica che non tutta la Torà data a Mosè da Dio sia contenuta in quella scritta; essa fu data anche come Legge orale, con lo stesso valore autoritativo e come fonte a cui attingere per la soluzione di casi di halakà, cioè di diritto da discutere e dirimere. 2) Lo stesso ordine d’idee diventa il criterio da adoperare nella ricostruzione della genesi dei testi che poi confluiranno nella Bibbia. È quest’ultima procedura che il M. segue con magistrale perizia, discutendo in un primo momento le problematiche suaccennate (cc. 1-3) e riprendendole poi in dettaglio per ogni sezione o libro del canone biblico (cc. 4-15). Di particolare interesse, perché attinenti a testi di fondamentale importanza e perché più ampiamente sviluppati, sono i cc. 3 e 4 che rendono ragione di quanto è stato accennato più sopra circa i concetti legali del giudaismo (c. 3) e circa lo stato e la genesi possibile del pentateuco (c. 4). Ad ogni modo, sia per quest’ultimo che per gli altri singoli libri dell’AT, l’autore affronta sistematicamente la discussione del loro stato precanonico, utilizzando soprattutto l’ormai vasto materiale qumranico a disposizione.

Come si può immaginare, lo studio del M. si legge con piacere e come stimolo ad approfondimenti, anche se talora si ha la sensazione di una traduzione non perfetta del discorso originale. È da segnalare, almeno come esempio, questa chiara incongruenza sintattica: «Comunque fino a quando non si assegnò al testo un valore “canonico” e in ogni caso questo vale ancora per i testi di Qumran; ma anche in Filone e in Giuseppe si nota, ecc…» (pp. 136s). Una ulteriore revisione del testo italiano rafforzerà il valore di questo studio, che raccomandiamo vivamente.



 
 
 
 
 
 
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