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Foto Schöch Nikolaus , Recensione: , in Antonianum, 78/4 (2003) p. 736-741 .

Il P. Andrea Boni, membro della Provincia francescana di Genova, Professore emerito della Facoltà di Diritto canonico del Pontificio Ateneo Antonianum, e autore di numerose pubblicazioni sulle questioni giuridiche dei vari rami della Famiglia francescana, ha preso spunto da una recentissima opera di J. Dalarun, François d'Assise ou le pouvoir en question. Principes et modalités du gouvernement dans l’ordre des Frères mineurs, Paris - Bruxelles 1999, tradotta in italiano da Paolo Canali. Andrea Boni ha cercato volutamente un titolo allusivo. A differenza di Dalarun, Boni non si basa soprattutto sulle „Fonti francescane“, ma intende partire dalle fonti giuridiche contemporanee. È soprattutto preoccupato di distinguere la questione del potere nell’Ordine dei Frati Minori da qualsiasi confronto e interferenza col potere civile, ritenuta da lui fuorviante. Per tale motivo, non condivide nessuna delle allusioni fatte dal Dalarun ad istituzioni civili.

Al dire del P. Boni, si tratta di un problema ecclesiastico, che va affrontato esclusivamente a norma della teologia e del diritto della Chiesa. L’Ordine dei Frati Minori è il prototipo della cosiddetta religione apostolica con una organizzazione piramidale: convento, provincia, ordine. Al vertice si trova il Romano Pontefice. S. Francesco ha promesso obbedienza e ossequio al Papa Onorio III e ai suoi successori (Regb, c. 1). S. Francesco ha realizzato il passaggio dal paradigma decentralizzato al paradigma centralizzato nell’organizzazione della vita religiosa. In base alla dottrina patristica dei tempi di S. Francesco, si conosceva allora soltanto la potestà pastorale conferita da Cristo agli Apostoli di santificare, insegnare e governare, potestà che ancora oggi Cristo conferisce sacramentalmente al Romano Pontefice ed ai Vescovi, successori degli apostoli.

Lo studio tratta dell’istituzione ecclesiale dell’Ordine dei Frati Minori nella struttura centralizzata dell’Ordine parte dal momento costitutivo della giuridicità dell’Ordine nel primo incontro ufficiale dei Frati con la Sede Apostolica, in concreto tra S. Francesco e alcuni compagni, con Innocenzo III, nel 1209 o 1210. L'autore ritiene tale incontro di fondamentale contenuto giuridico. Si tratta di un atto di obbedienza e di ossequio di S. Francesco e dei suoi primi seguaci. Il Romano Pontefice accolse questo atto e conferì personalità giuridica all’Ordine dei Frati Minori nella Chiesa, ed a S. Francesco la sacra potestà pastorale che gli era necessaria. L’Anonimo perugino spiega a riguardo che il Papa conferì a Francesco, in tale occasione, l’autorità di predicare dovunque il Vangelo e gli concedette la Facoltà, che anche lui poteva trasmettere agli altri frati.

Andrea Boni considera la chierica dei primi frati minori non una chierica ministeriale, ma una tonsura monastica. Afferma che la clericalizzazione non sarebbe stata nelle intenzioni di nessuno e, quindi, benché incontestabilmente una realtà storica, fuorviante. San Francesco avrebbe inviato a predicare indistintamente chierici e non chierici. Nell’incontro con Innocenzo III, S. Francesco sarebbe stato costituito Abate del proprio monastero, da identificarsi simbolicamente con l’Ordine dei Frati Minori, in quanto aveva ricevuto la potestà pastorale di essere guida spirituale dei suoi frati. Con la Decretale «Cum secundum Consilium» Papa Onorio III concesse ai frati, sia chierici che laici, la facoltà di imporre delle censure ecclesiastiche contro i frati che vagavano fuori dell’obbedienza pur portando l’abito.

Secondo il diritto canonico dell’epoca era il Vescovo ad accogliere alla professione, di persona o attraverso i delegati, l’abate e qualunque sacerdote. S. Francesco ricevette la professione di S. Chiara prima di rinchiudersi in Monastero. Il Santo poteva solennizzare la professione di S. Chiara nella sua qualità di Ministro generale di una famiglia religiosa laicale, per cui si trovava nella stessa condizione dell’abate nel proprio monastero. Questa prerogativa è propria dell’ufficio e della dignità dell’abate e della badessa senza alcun riferimento alla condizione sacerdotale. L'espressa considerazione dell'Ordine dei Frati Minori come Ordine laicale desta meraviglia, ai tempi di S. Francesco non era ancora presente tale netta distinzione come venne, invece, recepita nei Codici di diritto canonico del 1917 e del 1983. Sembra doversi concludere, secondo l'autore, che l'Ordine dei Frati Minori è stato definito dalla Sede Apostolica come istituto clericale contrariamente al progetto di S. Francesco, suo fondatore, conclusione che ci pare assai radicale.

Alla questione del diaconato di S. Francesco l'autore ha dedicato sette pagine (44-51) per ribadire la sua opinione, sviluppata in numerose pubblicazioni precedenti, che S. Francesco non fosse stato diacono come, invece, suggeriscono altri autori recenti, dei quali Andrea Boni ha omesso qualsiasi riferimento. Secondo Boni, S. Francesco non doveva essere diacono per il fatto che predicava (prerogativa del sacerdote e del diacono) perché lui ed i suoi primi compagni (sia chierici che laici), ottennero il mandato di predicare la penitenza. Il recupero dei laici alla responsabilità dell’evangelizzazione costituirebbe, secondo Boni, una delle grandi novità del Francescanesimo. S. Francesco non sarebbe stato nemmeno chierico, ma laico.

Il Ministro generale riceve la sua potestà come "l’abate" dei Frati Minori, cosa che avviene per disposizione legislativa, nel momento in cui i successori di S. Francesco (dopo la designazione da parte del capitolo) rinnovarono la loro professione di obbedienza e riverenza al Signor Papa, che conferiva loro la potestà pastorale di governare l’Ordine. All’ufficio del generalato sarebbero sempre stati idonei sia chierici che laici, in quanto non occorre il sacramento dell’ordine perché si tratterebbe soltanto di una partecipazione della potestà che Cristo conferisce sacramentalmente alla Chiesa per il cui esercizio non si richiede la sacra ordinazione. Nell’Ordine dei Frati Minori, il designato acquisisce la potestà di governo nel momento in cui si impegna ad esercitare il ministerium fratrum nell’osservanza della regola e delle costituzioni.

Il secondo Capitolo è dedicato alla questione del potere nella struttura centralizzata dell’Ordine. La maggior parte degli storici non si è resa conto che non è la legislazione dell’Ordine dei Frati Minori che dipende dalla legislazione dei Frati Predicatori, ma viceversa. Il potere pastorale non ascende dalla base, ma procede sacramentalmente da Cristo. Cristo ha concesso alla Chiesa la potestà pastorale, che è delegabile anche ai laici. Tutti i fedeli sarebbero abilitati all’esercizio della potestà pastorale partecipata in forza del battesimo.

Per spiegare il concetto di potestà pastorale all’epoca di S. Francesco Boni si serve della regola di S. Benedetto secondo il quale il monastero è retto con la potestà pastorale che Cristo conferisce sacramentalmente alla sua Chiesa e che i successori degli Apostoli (Vescovi) trasmettono all’abate. Il monastero rimane sotto l’autorità di un solo abate per tutto il tempo della sua vita. La potestà pastorale dell’abate è una potestà partecipata, giacché l’abate viene soltanto designato dalla base, mentre la potestà gli viene conferita dal vescovo del luogo o da altri abati già insigniti di questa stessa potestà.

La potestà pastorale viene partecipata dall’abate mediante la benedizione abbaziale. Con  tale rito, l’abate promette al Vescovo del luogo rispetto e obbedienza (comunione ecclesiale) mentre il Vescovo gli conferisce tutti i poteri necessari. Se l’abate non fosse in grado di provvedere da solo al bene spirituale del monastero si rende necessario procedere alla sua sostituzione nel servizio del monastero col servizio di un’altra persona che diventa la seconda autorità. Anche la potestà del priore, sebbene designato al suo ufficio per elezione da parte dei monaci, riceve il conferimento da parte dell'Abate per via di partecipazione. Sia chierici che laici sono idonei a ricevere la potestà partecipata di governo. Nell'atto della partecipazione della potestà pastorale, i designati non ricevono soltanto la potestà per governare il proprio monastero, ma anche l'autorizzazione ad esercitarla pubblicamente. Tale potestà acquisisce i connotati della potestas publica regendi subditos.

S. Francesco tentò la faticosa mediazione del passaggio dal paradigma dell'organizzazione decentralizzata al paradigma dell'organizzazione centralizzata. L'ordine divenne prototipo dell'organizzazione della vita religiosa a struttura centralizzata. Già la Regola del 1221 parla del Ministro generale e di ministri provinciali. È necessario far riferimento ai capp. 64 e 65 della Regola di S. Benedetto, che trattano della costituzione dell'abate e della costituzione del priore del monastero. Senza il riferimento alla Regola di S. Benedetto la regola di S. Francesco del 1221 non è completa, per cui il biasimo sulla negligenza originaria di S. Francesco nella regola del 1221 non è giustificato. Il Ministro corrisponde all'abate nel mondo monastico, e il custode al priore nel mondo monastico. In tale regola, gli uffici di governo vengono espressi con le denominazioni di ministro e di custode.

Di seguito, Boni si dedica alla centralità potestativa delle assemblee capitolari, al capitolo generale ed al capitolo provinciale. I capitoli sono organi di governo, ma le assemblee capitolari hanno un significato anzitutto spirituale. Per tale motivo, tutti i frati dovevano essere presenti al capitolo generale e al capito­lo provinciale (direttamente o indirettamente). La prima Rego­la prevedeva che il capitolo provinciale fosse aperto a tutti i fra­ti che desideravano parteciparvi. Le limitazioni successive sono state suggerite dall’esperienza, onde evi­tare confusioni insostenibili.

Non è il capitolo provinciale, ma il Ministro generale a trasmettere la potestà di governo ai ministri provinciali con partecipazione ab homine (non ex iure). S. Francesco nominava di­rettamente (senza designazione elettiva precedente) i ministri provinciali.

Solo il Ministro generale veniva designato in sede di capitolo generale da parte degli aventi diritto alla sua designazione, che erano, nonostante la partecipazione di tutti i frati alle assemblee capitolari, solo i ministri pro­vinciali ed i custodi. Nella Regola di S. Benedetto è previsto che la «partecipa­zione» di questa potestà sia di competenza del Vescovo del ter­ritorio, in quanto il monastero è sotto la sua giurisdizione ed è parte della sua chiesa particolare. Essendo l’Ordine dei Frati Minori esente dalla giurisdi­zione degli Ordinari del luogo, il conferimento della pote­stà pastorale è di competenza del Vescovo di Roma (Sommo Pontefice), al quale S. Francesco, come primo Ministro gene­rale dell’Ordine, promette «obbedienza e riverenza».

Mentre, nella tradizione benedettina, il «momento della partecipazio­ne» della potestà pastorale di governo si aveva nella «benedi­zione abbaziale», nel momento in cui l’eletto prometteva obbedienza e reve­renza al Vescovo del territorio, la partecipazione della potestà pastorale da parte del Som­mo Pontefice si è avuta ex iure (per disposizione di legge), quando il nuovo eletto emetteva la professione di obbedienza e di reverenza al Sommo Pontefice, e si impegnava con giura­mento ad osservare e a fare osservare la Regola francescana. In occasione del capitolo generale del 1220, S. Francesco costituì personalmente «custode generale» Pietro Cat­tani, con potestà custodiale. Con questo atto, S. Francesco non rinunziava al suo generalato e non ometteva di intervenire nelle cose di maggiore interesse dell’Ordine, come dimostra, tra l'altro, la De­cretale di Onorio III «Solet annuere» che, in data 29 novembre 1223, confermava la regola. Essa è indirizzata «ai diletti figli fra­te Francesco e agli altri frati dell’Ordine dei Frati minori»35.

Il primo successore di S. Francesco, Pietro Cattani, morì durante munere nel 1221, e S. Fran­cesco lo sostituì nello stesso anno nominando frate Giovanni Parenti, che rimase in carica fino alla morte di S. Francesco. L'esonero di Giovanni Parenti dall'ufficio di Ministro generale avvenne per sopraggiunta inidoneità di servizio per il "co­mune bene dei frati". È certo che questo atto capitolare non è stato compiuto in conformità a quanto prescritto dalla Rego­la, non eleggere un nuovo ministro generale, ma un custode generale. Solo per disposizione pontificia si introdusse nel capitolo generale del 1239 una limitazione nella durata dell’ufficio del ministro generale, non più eletto a vita, ma tanto ad explendam idoneitatem servitii. L'elezione ad explen­dam idoneitatem servitii è stata successivamente trasformata in elezione ad tempus prae­finitum.

Poiché gli ordini religiosi non si possono «scorporare» dal­la realtà della Chiesa, in quanto sono «Chiesa» essi stessi, non è ammissibile che possano essere retti da un’altra potestà, che non sia la potestà che regge tutta la Chiesa. La «potestà propria» di base, di ogni istituto di vita consa­crata è «propria» degli istituti clericali di diritto pontificio e di diritto diocesano e degli istituti laicali (maschili e femminili) di diritto pontificio e di diritto diocesano. La «potestà eccle­siastica» di governo, invece, è «propria» soltanto degli istituti clericali di diritto pontificio, tanto per il foro esterno, quanto per il foro interno.

Poiché nella prima Regola viene ancora preso ad esempio il capitolo che predispone la Regola di S. Benedetto per le co­munità monastiche, la prima Regola prescrive semplicemente come i ministri devono riunirsi per trattare delle cose che riguardano Dio (cap. 18). Quando, però, non sarà più pos­sibile riunire tutti i frati (sia per il capitolo generale che per il capitolo provinciale), l’elezione del ministro genera­le verrà demandata ai ministri e ai custodi e, nel caso di so­praggiunta inidoneità di servizio del ministro generale, seguen­do la prassi monastica, si provvederà alla sostituzione del suo servizio con la creazione di un «custode generale».

In un primo tempo, come i priori del monastero, an­che i ministri provinciali sono nominati e rimossi dal lo­ro ufficio dal ministro generale. Ricevono direttamente dal mi­nistro generale (per partecipazione) la potestà pastorale che è loro necessaria per il governo delle loro province, e sono sosti­tuiti o rimossi dal loro ufficio ad nutum del ministro genera­le.

In un secondo momento, i ministri provinciali vengono desi­gnati al loro ufficio con designazione elettiva, dal capitolo pro­vinciale, e ricevono dal ministro generale la potestà necessaria per governare la loro provincia ex iure (per dispo­sizione di legge), nel momento in cui promettono obbedienza al ministro generale e l’osservanza della Regola.

A nostro avviso, la «executio», conseguita dall’esercizio della potestà ecclesiastica di governo da parte dell’autorità ecclesia­stica di competenza, conferisce alla potestà ecclesiastica di go­verno (in atto) soltanto la qualifica di «potestà ecclesiastica pubblica», ossia, di «potestà di giurisdizione» (potestas publi­ca regendi subditos), ma è chiaro che questa qualifica non comporta nessuna alterazione della sua natura. In altre parole, non si tratta di due distinte potestà, ma si tratta di una sola po­testà, ed è la potestà che Cristo conferisce alla sua Chiesa.

Andrea Boni non si occupa delle dottrine susseguenti alla Patristica riguardanti la potestà di governo nella Chiesa. Il lettore non si deve, perciò, aspettare un confronto con lo sviluppo teologico-giuridico della questione della potestà nella Chiesa a partire dalla Lumen gentium o della genesi dei rispettivi canoni nel CIC/1983.

Boni si è basato soprattutto sulla regola e sugli scritti di S. Francesco, nonché sui suoi primi biografi. Ha interpretato tali fonti nel contesto delle fonti giuridiche contemporanee e della dottrina dei Padri della Chiesa, tra i quali soprattutto S. Benedetto di Norcia. Ha preso in considerazione i documenti del Concilio Vaticano II e la normativa del Codice vigente, ma ha consapevolmente evitato di entrare nelle questioni tanto dibattute da parte degli autori moderni, soprattutto nel campo del diritto canonico vigente. Il presente studio costituisce un ulteriore sviluppo degli studi precedenti dell'autore in materia e va letto nel loro contesto. Sono da menzionare particolarmente: A. Boni, Gli istituti religiosi e la loro potestà di governo - c. 607/c. 596 (Roma 1989); A. Boni, La novitas franciscana nel suo essere e nel suo divenire - cc. 578-631 (Roma 1998). Alla fine Andrea Boni, direttore dell'Ufficio giuridico dell'Ordine dei Frati Minori, offre un indice degli autori ed un dettagliato indice generale. Un'attenta correzione delle bozze ha contribuito alla presentazione di un testo quasi immune da errori. L'autore, dotato di una lunga esperienza accademica, ma anche di una notevole esperienza nel governo dell'Ordine dei Frati Minori, ha offerto uno studio che appare volutamente polemico, per spingere il lettore ad un approfondito studio della storia giuridica della Famiglia Francescana e delle tante questioni dibattute legate alla sua origine. Il lettore non si troverà sempre d'accordo con le marcate posizioni dell'autore, ma troverà tanti spunti per una ricerca approfondita e per una rilettura delle fonti sia francescane che patristiche, da cui l'autore si è lasciato tanto entusiasmare.



 
 
 
 
 
 
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