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Recensione: Paolo Matthiae, I tesori di Ebla

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: Paolo Matthiae, I tesori di Ebla , in Antonianum, 60/2-3 (1985) p. 524-526 .

Probabilmente, quando nel 1964 si sono cominciati i primi assaggi archeologici a Teli Mardikh, a circa 55 Km a sud di Aleppo, nella Siria settentrionale, non s'immaginava certo che presto si sarebbe fatta una delle più importanti scoperte del secolo, che avrebbe rimescolato una buona parte dell'archeologia orientalistica e degli studi ad essa connessi. Certo che P. Matthiae, direttore degli scavi per conto dell'Università romana « La Sapienza », sapeva di star mettendo le mani sulla misteriosa e sconosciuta città di Ebla, ma chissà se pensava che sarebbe nata una struttura sistematica di studio che avrebbe reso ragione delle ricerche sparse e frammentarie nel campo nordsiriano (se si eccettua l'« exploit » costituito da Ugarit-Ras Shamra e da Mari-Teli Hariri), riconducendole ad essa e permettendo l'emergenza di un « tertium comparationis » di fronte agli altri due pilastri dell'orientalistica, l'egittologia e l'assiriologia.

Ad ogni modo, gli eventi si sono susseguiti entusiasmanti e mostrano di non voler cessare. Dopo l'identificazione di Ebla nel 1968, si sono scoperti nel 1974 il cosiddetto Palazzo Reale G e gli Archivi di Stato (24° sec. a.C), mentre nel 1978 sono stati portati alla luce il Palazzo Occidentale e le tombe principesche della necropoli reale (18° sec. a.C).

Per un'approfondita ed autorevole conoscenza del valore di questa grande scoperta, il libro del suo autore, già alla sua seconda edizione, si raccomanda come lettura irrinunciabile e stimolante. Noi ci limitiamo a sottolineare solo alcuni aspetti fondamentali della scoperta.

Dal punto di vista storico e archeologico, la conoscenza di Ebla viene a colmare, come si è detto, quello iato brandelliforme esistente tra una Mesopotamia e un Egitto, i cui studi hanno raggiunto il più alto grado di sofisticatezza. La scoperta di llgarit e di Mari prima e quella di Ebla poi (insieme ad altri siti già localizzati o da localizzare presto) permet­tono, specialmente la seconda, di ricostruire con una certa continuità la storia di quell'importante territorio ad ovest della Mesopotamia set­tentrionale, che si estende fino alla costa del Mediterraneo. Una storia che data fin dal III millennio a.C. e si mescola con quella delle prime dinastie di Sumer (Uruk, Isin, Larsa), da cui ha subito una forte influenza cul­turale che non ha tuttavia impedito lo sviluppo di una propria originalità manifestatasi nei momenti di più alto splendore. Ebla ha conosciuto periodi alterni di declino e di risollevamento, ora diventando un impero centrale con tanti stati vassalli, ora soggiacendo all'avvento del più forte, com'è successo quando ha conosciuto una prima grande distruzione (nel 2100 a.C. circa) ad opera di Sargon, fondatore della dinastia di Akkad, o del nipote Naram Sin, o quando ha subito la definitiva cancellazione politica ad opera della potenza ittita (nel 1600 a.C. circa).

Ma la scoperta di Ebla non ha soltanto un grande valore per l'aspetto storico, bensì anche per quello linguistico. Le moltissime tavolette cunei­formi trovate negli Archivi di Stato testimoniano una lingua arcaica il cui carattere semitico è indubitabile. Essa però non sarebbe semplicemente una variante occidentale dell'arcadico, ma rispecchierebbe, come afferma il M., addirittura una fase precedente all'accadico stesso e, quindi, il sostrato semitico di una lingua largamente diffusa su un vasto territorio in un periodo arcaico.

Vi sarebbero altri aspetti da sottolineare nella storia di Ebla e del mondo circostante, come quello socio-economico (ci. pp. 137-138), ma per il campo d'interessi del recensore, quello biblico, preme sottolineare un'importante questione che il M. affronta nel terzo e soprattutto nel quarto capitolo. La questione sorge dall'ennesimo forse eccessivo entu­siasmo nato in ambienti biblici, i quali hanno visto nella scoperta di Ebla un nuovo campo di ricerca in cui lanciarsi « toto corde », per scoprirvi eventuali paralleli o addentellati storici, archeologici o linguistici, special­mente con l'era dei Patriarchi.

Il M., il quale non si risparmia un tono a volte un po' troppo pole­mico, fa giustizia di una certa metodologia che applica i criteri dell'ar-cheoloiga biblica, spesso predeterminata da presupposti teologici o ideolo giri, discutibili ma non illegittimi, alla lettura di dati archeologici che vanno interpretati solo in una «prospettiva storica» (p. 133).

Il risentimento dell'A. è giustificato e scientificamente accettabile è il criterio prioritario di una rigorosità asettica e disincantata (ma dal punto di vista di un'ermeneutica sarebbe da discutere se ciò sia possibile in assoluto...). Del resto, egli cita lo stesso R. De Vaux, anche per il quale l'archeologia non può dimostrare la fede! (p. 104).

Ora, però, si spererebbe che il M., coerente col suo criterio, si la­sciasse aperto e disponibile a eventuali scoperte che potrebbero avere relazione col mondo biblico. Ci sembra, per esempio, che con troppa rapidità egli dia per certo un fatto che certo non è: l'inesistenza di un dio Ya-Yao, che secondo G. Pettinato sarebbe invece deducibile dall'onoma­stica eblaita; tesi contestata, è vero, e su cui gravano grosse difficoltà (si veda la riportata critica di A. Archi, p. 358), ma incertezze anche gravi desiderano... una liquidazione più sfumata (cf. p. 130).

A conclusione di questo rapido esame, non si può non far cenno all'altra notevole caratteristica di quest'opera che a un testo intenso aggiunge un vasto repertorio fotografico (metà libro) con minute de­scrizioni.

Buona e giovevole la nota di bibliografia critica alle pp. 353-359. Infelice il titolo.

 

 


 



 
 
 
 
 
 
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